Noi che sognammo un mondo più gentile. Intervista di Salvatore Ritrovato a Umberto Piersanti

Noi che sognammo un mondo più gentile. Un nuovo romanzo di Umberto Piersanti

a cura di Salvatore Ritrovato

L’11 gennaio 2012, a Urbino, abbiamo intervistato Umberto Piersanti su Cupo tempo gentile, suo nuovo romanzo di prossima uscita presso Marcos y Marcos. (L’intervista verrà pubblicata sull’Almanacco di poesia contemporanea “Punto”, n. 2 – editore Puntoacapo)

D – Nel ripercorrere la vicenda della tua opera, si direbbe che tu arrivi alla prosa, e poi alla narrativa, a partire dalla poesia. Eppure, fra i due versanti della tua produzione vi è un rapporto più stretto e, oserei dire, simbiotico, com’è vero che i tuoi versi sono venati da un’autentica passione poematica sin dalle prime raccolte, in direzione vieppiù epico-lirica, e come dimostrò a suo tempo L’uomo delle Cesane, un vero e proprio “romanzo di iniziazione”, non solo per il protagonista, Roberto, ma anche per l’autore, voglio dire per te, tanto è vero che tornerai alla prosa narrativa con L’estate dell’altro millennio e Olimpo e, ora, con Cupo tempo gentile. Ti convince questa ipotesi? Si può dire che la prosa narrativa sia solo una via ‘secondaria’ che porta al cuore della poetica?

R – Il romanzo e la poesia sono due maniere di guardare il mondo, dettate dall’uso dello strumento. Se io voglio raccontare la battaglia di El Alamein quale avvenuta, non la posso raccontare in versi. È vero – e vengo al cuore della tua domanda – l’occhio del protagonista riflette il mio punto di vista. Tanto è vero che io, scherzando, ne faccio sempre un poeta, magari di terza classe. Se prendi uno degli episodi più belli dell’Estate dell’altro millennio – Marco che sta entrando nella grande foresta montenegrina con il suo reparto, a caccia di partigiani, e rischia la pelle a ogni passo – ecco, egli si sofferma sulla natura, sui corvi che passano alti, sul fruscio di un daino in lontananza. Ma non coincide esattamente con il mio, in fondo è il suo punto di vista, quello di un osservatore che descrive un paesaggio. Credo perciò di non avere il difetto tipico di tanti poeti che scrivono romanzi: il mio romanzo è un’opera narrativa, piena di vicende, avventure, colpi di scena.

D – Quanto è diverso ‘costruire’ un romanzo dal ‘comporre’ una raccolta di poesie?

R – Vale quello che si dice per le lingue. Certe espressioni italiane non possono essere tradotte in francese o in inglese, e viceversa. Gli eschimesi hanno venti modi per dire la neve, che non riusciremo mai a tradurre. La poesia ha bisogno di una carica intensa ed assoluta, almeno nel mio caso. Sì, non è che scrivi esattamente quel che detta la Musa, ma devi essere carico; certe immagini te le porti dentro da tempo, aspettano solo una soluzione stilistica, che trovi un giorno, quando scatta l’occasione, l’urgenza. Perciò la poesia è legata fortemente all’“ispirazione”, termine un po’ antico, che però non mi impressiona, purché non venga inteso in senso mistico. La narrativa invece non può consistere in una serie di illuminazioni, ha bisogno di un progetto, di un lavoro costante nel corso della scrittura, che non esclude ovviamente la stesura di momenti lirici, passaggi poetici. Per l’Estate dell’altro millennio ho fatto delle ricerche, mi sono documentato attentamente sulla politica e la storia militare della Seconda Guerra Mondiale. Nel romanzo vi è una strutturazione che la poesia non prevede, e questo vale per la mia opera.

D – Ci puoi dire di che cosa parla il tuo nuovo romanzo e che cosa potrebbe renderlo attuale (o inattuale) agli occhi di un lettore di oggi?

R – Il mio romanzo si svolge tra la fine del ’67 e la fine del ’69; inizia con le prime occupazioni a Torino e termina nel novembre prima della strage di Piazza Fontana, con il primo morto del lungo periodo della contestazione, l’agente di polizia Antonio Annarumma [morto durante una manifestazione a Milano il 19 novembre 1969, n.d.r.]. Prima di questo episodio, la contestazione vive il suo momento aurorale, il momento più bello, in cui la volontà di cambiare il mondo, il desiderio di trovarsi insieme è dominante, anche se già covano le ideologie più estremiste, l’attesa di una palingenesi assoluta, con le prime avvisaglie di violenza, che segna una nuova fase nel Sessantotto, o forse proprio la sua fine a l’inizio dei così detti anni di piombo. Il mio romanzo finisce con l’inizio di questa violenza (e in particolare con l’assalto, da parte dei ‘compagni’, all’istituto di Filologia Moderna, dove si erano rifugiati dei ‘fascisti’).
Credo che il mio romanzo sia attuale perché, a mio modestissimo parere, il Sessantotto fin qui ha prodotto poco in letteratura. Porci con le ali? Ma è del ’77, ed è un racconto garbato, anche divertito, di quegli anni. O Formidabili quegli anni di Capanna, che si risolve in un’apologia indiscriminata di quegli anni. O ancora Vogliamo tutto di Balestrini, un po’ ideologico. E tra i film? Ricordo Contestazione generale di Zampa, dei suoi film più brutti. Va bene, c’è Zabriskie point di Antonioni, che rappresenta già un’interpretazione fortemente simbolica del ribellismo giovanile. Una narrazione attenta e disincantata non è mai stata tentata. Io, con il mio romanzo, voglio narrare il Sessantotto né da apologeta né da pentito, e senza prendere scorciatoie (il giallo, il thriller, la fiction sentimentale e quant’altro), ma restituendo l’affresco storico di quel periodo, che era, sì, la contestazione delle città, ma anche altro, e penso alla fine del mondo contadino, a quella campagna verso cui pure si continua a fuggire.

D – In questo romanzo affronti un nodo fondamentale della storia d’Italia del dopoguerra. Un nodo per molti aspetti non ancora sciolto, credo che tu sia d’accordo. Ora, se ti definissero scrittore ‘impegnato’ tu saresti d’accordo? E direttamente collegata a questa domanda: quanto questo romanzo riflette il tuo punto di vista politico sul Sessantotto?

R – Non mi piace essere definito ‘scrittore impegnato’. La parola engagé è ormai connotata in modo ideologico. Appartengo a un’area progressista moderata, e considero il poeta inserito nella società. Sono lontano dall’idea che un romanzo debba cambiare le cose; esso è innanzitutto letteratura. Se tu mi parli di una vena civile, sono d’accordo. Il mio romanzo getta uno sguardo preciso sul Sessantotto, e in generale sulle trasformazioni della società, sulla condizione delle donne, su una certa fraternità d’animo, e mette in luce il momento in cui le speranze di una rivoluzione culturale del Sessantotto furono sorpassate da una lotta violenta e sanguinosa, sulla quale purtroppo scommisero molti intellettuali, eleggendo terribili dittatori a icone del movimento. Sì, questo romanzo riflette il mio punto di vista su quegli anni. Non a caso, nel titolo del romanzo, ritorna un mio verso: «Noi che sognammo un mondo più gentile», che piaceva tanto a Remo Pagnanelli.

D – Credi che un romanzo, o se vogliamo un’opera letteraria, possa tuttora ambire a dire qualcosa di nuovo sulla storia che viviamo? Cioè, possa presentarsi con l’ambizione di un testo che non deve solo intrattenere, ma deve far pensare, riflettere, porre delle questioni? E in che misura questi elementi di criticità valgono per il tuo nuovo romanzo?

R – Il primo compito di un romanzo è di essere un bel romanzo. Ma non basta. Ogni grande romanzo pretende di interpretare il suo tempo, attraversando i campi culturali più diversi, dalla politica alla religione, ed è un’opera complessa, che ci consente di capire meglio la storia di un certo periodo (penso, per esempio, a Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque). Non credo nel romanzo come puro intrattenimento, che oggi trova riscontro anche nell’indice di ascolto delle fiction televisive. Vi sono romanzi senz’anima. Penso a Durante di Andrea De Carlo, che sarebbe ambientato nelle campagne dell’Appennino, ma non ho trovato nulla che mi confermasse questa premessa. Potrebbe svolgersi anche altrove, chissà dove. Io sono rimasto a un’idea diversa di romanzo. Sono legato all’ultima grande generazione del Novecento, che ha visto e vissuto la guerra: Pasolini, Calvino, Volponi. Mario Luzi elogiò la mia Estate dell’altro millennio, e in particolare era stupito che io, che vissi la guerra solo da bambino (sono nato nel ’41), compresi molto bene i sentimenti di quell’età e l’animo degli uomini che la vissero.

D – Una curiosità intorno al tuo romanzo – che rientra forse nell’ambito della Sociologia della letteratura (materia che tu conosci bene, dal momento che l’hai insegnata per anni all’università) – riguarda il rapporto con l’editore. Come sei arrivato all’editore Marcos y Marcos? Pensavi che altri editori potevano essere interessati? Sei stato seguito da un editor che ti ha consigliato di ampliare o di tagliare certe scene in rapporto al loro appeal sul lettore?

R – Ho mandato il mio romanzo a diversi editori. Alcuni mi hanno risposto, altri non mi hanno neanche degnato di una risposta. Che per cortesia si dovrebbe sempre dare. Ormai l’editoria italiana, soprattutto quella grande, mi pare inseguire un certo modello americano, scatenata a inseguire il romanzo di successo, che l’anno dopo nessuno più ricorda. Il problema però non è solo l’editoria, è anche il pubblico, che non c’è, o meglio che è numericamente debole. In Italia si legge poco, e ai pochi lettori è facile imporre nomi che hanno una certa risonanza mediatica. Solo una élite sa apprezzare ancora romanzi come Il Gattopardo. Gli italiani amano la spettacolarizzazione dell’evento letterario, cui la letteratura migliore – soprattutto la poesia – non sempre possono sottomettersi. Succede, allora, che scrittori importanti in altri paesi, addirittura degni del nobel (penso a Le Clézio e a Transtromer), da noi siano editi da piccoli editori, o incredibilmente ignorati. La scelta di un editore come Marcos y Marcos è stata determinata anche dalla mia personale esigenza di difendere il mio spazio creativo dagli editor e di avere un rapporto sincero con l’editore. Non avrei mai accettato, così come si stava già prefigurando nel contatto che ebbi con alcuni grandi editori, di aggiungere scene di sesso o qualche omicidio per costruire un giallo e catturare meglio l’attenzione del lettore; avrei tradito non solo il romanzo, ma anche me stesso.

D – Ricapitoliamo, dunque, la tua produzione narrativa. Il primo romanzo è una sorta di “affresco” lirico e realistico, elegiaco e visionario (prendo gli aggettivi dalla quarta di copertina) della vita fra Montefeltro e Cesane, Urbino e campagna, fra gli anni Quaranta e Settanta. Il secondo romanzo è di genere storico. Il terzo punta allo scavo sentimentale-psicologico di un teso rapporto intergenerazionale. Infine, questo quarto romanzo, che pure parla di una storia d’amore, potrebbe essere avvicinato al filone inventato non molti anni fa per il cinema italiano così detto “politico-d’inchiesta”, e collocato magari nella tradizione del romanzo “storico-d’inchiesta”. Ti trova d’accordo questa ricostruzione?

R – Direi di sì. Cupo tempo gentile è un affresco di un periodo non lontano della nostra storia, i cui nodi non possono dirsi affatto risolti, così come lo sono in parte quelli delle due guerre mondiali. Vorrei però dirti anche ciò che accomuna tutti questi romanzi, al di là delle specificità che tu metti in evidenza. Vi è un bisogno di capire il mondo e insieme di fuga dal mondo in tutti i protagonisti dei romanzi, dall’Uomo delle Cesane ad Andrea, il nuovo protagonista di Cupo tempo gentile. Vi è lo stesso sguardo, convinto ma anche disincantato, razionale e pure sognante, che parte dall’orizzonte urbinate, tra Montefeltro e Cesane, e si allarga via via agli Appennini, all’Italia. Vi è poi la mia idea, fondamentale anche nella poesia, di mettere a confronto le mie radici con il mondo, che è più di uno sfondo, costituisce un orizzonte imprescindibile nel quale prende senso il mio discorso sulle radici. la mia narrativa ha questa continuità nello sguardo dei protagonisti – da Roberto a Marco, a Luca, ad Andrea [nomi dei protagonisti dei quattro romanzi di U. P., n.d.r.] – che mi assomigliano in quanto tendono, per quel che la storia che essi vivono permette, ad abitare poeticamente il mondo.

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