“Vigilia al bar” di Giancarlo Trapanese

Nighthawks (Nottambuli) di Edward Hopper, 1942. Art Institute of Chicago

Guarda spesso l’orologio dietro il bancone del bar e lo confronta continuamente con il suo, al polso. Non c’è niente da fare, entrambi hanno rallentato scandendo i secondi di quell’aperitivo infinito fatto di noccioline catturate con le dita (ignorando il cucchiaino) e di crostini di mille colori e di un sapore solo. Difficile far trascorrere il tempo, arrivare alle 20,30 calato nel suo silenzio interiore, refrattario alla confusione attorno, ai sorrisi, agli auguri in automatico che si scambiano quelli attorno.
Lui ama la sua solitudine.
Non lo interessa la compagnia fatta di migliaia di contatti superficiali, di persone inutili, di tanti fastidiosi “altri”, invidiosi della sua carriera, dei suoi soldi, pronti a pugnalarlo alle spalle.

Una serata in apnea. Ecco cosa si sta apprestando a vivere, come tutte quelle degli ultimi 15 anni. Il cenone della vigilia è una tortura alla quale non ha mai avuto il coraggio di sottrarsi, per qualche inspiegabile motivo, e di questo se ne fa una colpa.
I finti “buon anno e buon natale” con il figlio che nei restanti 364 giorni l’anno lo ignora e lo disprezza. E l’ansia interessata e prezzolata di suo nipote, 9 anni di esistenza concepita solo per inviare messaggini preconfezionati ed e mail di routine che gli costano cifre fuori della logica e che comunque non riescono a comprare neanche un sorriso vero da destinare al nonno.
Per non parlare del rancore e del gelo di “Sua Avidità”, l’ex moglie e la sua corte dei miracoli tenuta assieme, una volta l’anno, dalla stupida usanza di questa recita ipocrita e bastarda.
Insopportabile sempre, tanto più ora che i pensieri sono così opposti e lontani dalle lucette intermittenti, dai volti sorridenti dei Babbi Natale degli anni cinquanta appesi alle vetrine, dai pensieri positivi.

La crisi, uno stabilimento chiuso, i sindacati scassa-maroni ciechi persino alla luce dei conti , in 1300 in cassa integrazione ed una parte delle sue attività e della sua vita ormai compromessa irrimediabilmente.
Fuggire. Vivere di rendita.
In fondo potrebbe farlo senza problemi, in qualche bella isola o anche a New York nel suo appartamentino che ormai non vede da più di un anno. Ma vuol dire arrendersi, abdicare, ammettere di aver fallito, avrebbe regalato quel sorriso di scherno ai suoi detrattori, a chi ha impostato la propria vita sul “contro” , parassiti incapaci di produrre qualcosa di diverso da lamentele e critiche spugnate nel brodo denso dell’invidia.
A partire da quei parenti che avrebbe visto tra poco, interessati solo al rispetto dei versamenti dell’assegno di mantenimento, alle buste con i contanti che sostituiscono i suoi regali ormai da diversi anni, da quando non aveva più avuto voglia e tempo neanche di dire alla segretaria di pensare ai cadò. Gli stessi “ congiunti e finti amici” che poi si sono permessi di criticare e di polemizzare (anche sui giornali) sulla scelta di trasferire la produzione in Polonia di fronte all’evidenza dei fatti. Qui in Italia l’azzeramento degli utili, la rimessa: là ancora un buon margine di guadagno. Qui un’autostrada verso il fallimento, là un viottolo della speranza. Come facevano a non vedere, a non capire?

Ordina con un gesto un altro americanino dopo aver trangugiato, litigando con i cubetti di ghiaccio, l’ultimo sorso .
“Ciao. Marini? Ing. Marini?”
Il suo nome pronunciato in quel modo gutturale lo fa sussultare più della mano nera appoggiata in modo fastidioso e arrogante sulla sua spalla e alla quale si sottrae d’istinto con un gesto spazientito.
Si volta per inquadrare l’inopportuno che osa spezzare il silenzio e interrompere il flusso dei suoi pensieri. Un robusto uomo di colore, un berretto logoro calato sulla fronte, una giacca di lana a scacchi , un borsone con oggetti di ogni tipo.
“Non mi tocchi, che diamine. Stia al suo posto. Non mi serve niente. Non voglio niente mi spiace”
“Scusa, scusa, no io non volevo niente. Solo saluto”
“Ecco ci siamo salutati. Va bene. Buon Natale ma non ho niente da darti, mi dispiace, se dessi qualcosa a tutti…” e non finisce la frase perché arriva l’altro americanino e perché la curiosità si è fatta largo tra diffidenza, fastidio e disagio.
“Come fai a sapere come mi chiamo?”
L’altro, l’omone nero, esplode un accecante sorriso bianco posando a terra il borsone.
“Io lavorato per te, due anni. Non ricordi?”
Presuntuoso e sciocco. Come poteva pensarlo?
“Ah si? Bene bene, bravo. Poi vedo che hai cambiato mestiere” gli risponde indicando il borsone e con un pizzico di sarcasmo nel tono.
L’altro, l’omone nero, non scalfisce neppure il suo sorriso mentre gli spiega che faceva parte del personale licenziato negli esuberi del 2010 alzando le spalle come a dire ”che posso farci”?
Dunque un soggetto pieno di rancore e di risentimento che può diventare pericoloso, ragiona in tempo reale, predisponendosi alla difesa e maledicendo la confidenza che gli ha concesso con quella domanda.
“Ah mi dispiace. Va bene, buona fortuna” cerca di tagliar corto e ignorando del tutto la penna laser che gli sta porgendo e che ha pescato nel borsone. “Te l’ho detto, non ho bisogno di nulla e non ho soldi spiccioli” lo liquida girandosi verso il bancone del bar e portando alle labbra il bicchiere a segnalare che la conversazione è chiusa davvero.
“Questa per te, no soldi, io dare a te prendi per favore. Mio regalo di Natale”
Il solito trucco.
“Non ho spiccioli da darti, te l’ho detto, non puoi star qui su. Basta” e guarda verso la cassa il proprietario del bar chiedendo con uno sguardo il suo intervento.
All’invito esplicito, secco e urlato, l’altro, l’omone nero, fa cenno di sì con la testa. Prende il borsone. Poggia la penna laser sul bancone, si chiude il giaccone calzando di più il cappello.
“Sì sì, Questa è però per te. Tu dato a me lavoro, due anni, dato fiducia a Kaled e anche se non ricordi me, io dico a te davvero Buon Natale. Ciao”
Si volta, e con passo inciampato sulla borsa guadagna la porta uscendo in strada e tuffandosi tra le luci del corso e la gente che gli passa accanto facendo finta di non vederlo.

Resta nel bar con il bicchiere in una mano e la penna laser nell’altra attendendo per qualche istante il suo rientro, certamente per chiedergli qualcosa, per strappargli qualche spicciolo.
Contraddetto e sorpreso quando capisce che non sarebbe tornato.
Non ha nessuna logica quel gesto. Da un licenziato oltretutto.
Che convenienza ha nel farlo? Forse vuole farsi riassumere. Certamente deve essere così. Che altro scopo può avere?
Torna all’aperitivo cercando di ignorare la strana sensazione che lo ha preso e che lo costringe a guardare continuamente la porta sperando quasi di vederlo rientrare per dare ragione alla sua tesi, la più semplice, la più razionale, la più logica.
Ma non ha più voglia di bere. Lascia il bicchiere ancora pieno, chiude il cappotto e passa alla cassa a pagare.
Non riesce a far quadrare i suoi pensieri. Colpa di quello…
Istintivamente, passo svelto, si dirige nella direzione che gli aveva visto prendere.
Si sente strano.

L’altro, l’omone nero, lo vede alla fine del corso che tenta di fermare un passante per vendergli qualcosa e lo insegue poi con il suo sorriso d’ordinanza per chiedergli almeno un euro.
Quando lo raggiunge e lo chiama “Kaled” è sorpreso.
Non lo riconosce subito.
“Non voglio niente davvero” risponde lui dopo aver capito, subito sulla difensiva.
Gli tende la mano.
“No volevo solo dirti grazie per il regalo e gli auguri. Buon Natale davvero”
Gli stringe la mano con entusiasmo.
“Senti, ti sembrerà assurdo, ma… stasera ho il cenone della vigilia con tanta gente che mi detesta senza alcun motivo. Vuoi venire con me ? Almeno sto con uno che, pur avendone motivo, non mi detesta”.
E’ sconvolto lui stesso dalle parole che si sente pronunciare: ma che sta dicendo?
L’altro, l’omone nero non spegne il sorriso mentre gli spiega che è tanto felice della proposta ma che stasera ha moglie e figlio a casa che lo aspettavano per festeggiare e che per questo ha cercato di lavorare sino all’ultimo: per comprare qualche cosa di speciale.
Si guardano a lungo negli occhi continuando a stringersi la mano.
Lui sente bruciare gli occhi, pieni di lacrime.
Forse il vento freddo.

Mentre si avvia a recuperare il suo Suv, però, si sente contento. In modo insolito.
Il peso del borsone che ha comprato in blocco per 300 euro non lo infastidisce affatto.
Anzi sente che per una volta farà stasera, a tutti, dei regali particolari e proprio belli.
Anche se nessuno li potrà davvero capire e apprezzare.

Giancarlo Trapanese

Giancarlo Trapanese, scrittore, giornalista professionista, vice capo redattore della sede Rai per le Marche, professore a contratto di Teoria e tecnica del linguaggio radiotelevisivo presso Scienza della Comunicazione – Università di Macerata (dal 2008 al 2011 ). Dal 2011-2012 professore a contratto del Laboratorio di Comunicazione scritta – Scienza della Comunicazione Università di Macerata.
www.giancarlotrapanese.it

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