Quel chiodo detto amore

La dirimpettaia e altri affanni (Mondadori, Milano,2013)

Intenso e vivido, per la straordinaria varietà di toni e di strutture metriche, è l’ultimo libro pubblicato da Silvio Ramat, La dirimpettaia e altri affanni (ed Mondadori, Milano, 2013). Le vicende narrate, pur non tradendo mai le tematiche fondamentali dell’autore, si arricchiscono di accenti nuovi, talora espressione di una  delicata sensibilità.

Mnemosine (la memoria), secondo il racconto di Esiodo, è la madre della muse ed è a lei che il nostro poeta si affida, anche in quest’ultima raccolta, scoprendo la sua dimensione più intima e vitale. Ne I pensieri Giacomo Leopardi definisce gli anni della giovinezza, nella memoria di ciascuno, i tempi favolosi della vita. Ramat ritorna di frequente nei suoi libri all’infanzia, ai luoghi e alle persone a lui care. Memorabile a questo riguardo è la raccolta Mia madre un secolo (Marsilio Editori 2002), nella quale il poeta racconta, sullo sfondo di Firenze, le vicende della madre, che in quella città ha vissuto per quasi un secolo, dovendo rinunciare alla propria vocazione letteraria, per i gravi eventi legati alla storia del Novecento e per il peso di una  famiglia numerosa.

In La dirimpettaia e altri affanni rivivono le persone amate dal poeta; potremmo direche c’è quasi, pascolianamente parlando, un ritorno al proprio perduto nido. Suddiviso in nove sezioni, dopo la poesia d’apertura Gli anni andati, la prima, dal titolo emblematico Caro babbo, è interamente dedicata al padre, critico di fama e letterato, al quale l’autore chiede perdono per non avergli dedicato finora quasi nulla, ma soprattutto per non aver saputo impedire l’incidente, che gli fu fatale: “…Per pura timidezza/ non seppi far comprendere a mio padre/ neo patentato e già oltre i sessanta/ quanto rischiasse guidando”. In queste liriche, in cui il poeta riannoda i fili della memoria alla figura del padre (il quale fine studioso appare insieme al figlio, in una stessa pagina nella nuova edizione dell’enciclopedia Rizzoli-Larouse): l’io narrante assume una pacatezza confidenziale, che pur creando un forte coinvolgimento emotivo, non cede mai alla retorica, tenendo sempre alto il controllo sulla parola.

Di spiccata intensità espressiva è pure la seconda sezione: Una città, le anime, le stanze; in quest’ultima Silvio Ramat rievoca, oltre alla madre, le vie, le strade della sua amata città natale, dimostrando il proprio irrefrenabile legame agli spazi, ai paesaggi, all’aura stessa di Firenze, città che si addiceva molto alla madre, così sobria, contraria ad ogni barocchismo.

Possiamo, quindi, affermare quanto sia importate per l’autore fiorentino, come è avvenuto per altri noti poeti del Novecento, l’esperienza del luogo, quale radice profonda del proprio sentire poetico. Affiorano, del resto, sul piano linguistico, cadenze e ricercatezze della colta parlata fiorentina. Nella lirica Cerniere scrive l’autore: “In altra età‒ma allora non si usavano /tante cerniere‒al ciabattino Armando,/in quel suo stambugio di un metro cubo/a cui nulla mancava eccetto l’aria,/ avrei chiesto soccorso./In altra età”. È una città, come precisa Davide Puccini, quella narrata dal nostro autore, d’altri tempi, ma anche quella luminosa che vide Mario Luzi, quasi un passaggio ideale di testimone, donare dei libri al giovane Ramat, il quale considerava quei doni un bene prezioso dal quale non si sarebbe mai separato. Oltre alla memoria, è il tempo uno dei motivi ricorrenti della poetica ramattiana. L’autore, infatti, vorrebbe, attraverso la scrittura, sospenderlo e costruire un universo a parte: il tempo della poesia, che ha modalità e misure tutte sue. Tramite i versi vorrebbe far rivivere voci, ricordi, chiamare infine a raccolta tutti i poeti del ’39, la sua generazione per rivolgere loro questo interrogativo: “noi che l’anagrafe accosta a intelletti/illustri (Magris, Lavagetto, Ginzburg),/ si saprà, un giorno, che siamo esistiti?”. C’è una strenua lotta del poeta contro l’ineludibile scorrere degli anni che consuma, trasformandoci; Mimnermo, in un celebre frammento scriveva: ” Fulmineo/ precipita il frutto di giovinezza,/ come la luce d’un giorno sulla terra”. Si legge da sempre nei testi dell’autore fiorentino una tensione irriducibile tra i propri desideri e i traguardi raggiunti, tra il tempo dei ricordi ed il tempo del presente, che si tramuta, talvolta, in note di costante nostalgia.

Ma anche il sogno e l’amore rientrano nel mondo ricco e complesso della poetica di Ramat, già nel Canzoniere dell’amico espatriato, il nostro autore raccontava, in quartine, a rima intrecciata, di una passione, forse solo sognata o vagheggiata, tra un uomo maturo e una donna molto più giovane di lui. In La dirimpettaia e altri affanni il tema viene ripreso con grande raffinatezza e ricercatezza stilistica, nella sezione dal titolo Passione dell’anziano erborista, dove la scelta linguistica e metrica si colora di antichi stilemi e di richiami letterari, per condurre il lettore in una dimensione atemporale, quasi evanescente. Pervasa di un lirismo sottaciuto, che, talvolta, di improvviso si infiamma (nella lirica Come guardar si legge: “dirsi quel che si sa o che si presume/memoria e fantasia facendo lume/ e sentirsi pareti così tènere/ da penetrarvi il chiodo detto amore.”), narra la vicenda dell’amore tra un vecchio erborista, che passava la vita a filtrare, distillare, bollire le sue medicamentose pozioni e una ragazza, cui piacevano “forse le stanchezze, da fiore avvizzito” e le altrui storie, così ricche rispetto alle sue, paragonabili a brevi aneddoti.

Decisamente nuova ed originale è la sezione eponima La dirimpettaia: poemetto costituito da venti stanze, tutte in un endecasillabo a livello melodico abbassato, in cui l’autore, ispirandosi al film La finestra sul cortile di Hitchcock, riveste i panni di James Stewart. Con un vecchio binocolo da teatro, infatti, immagina di osservare, non con l’intento di un volgare guardone, le vicende private di una giovane donna, forse di trentacinque anni: un’età da sempre amata dal poeta, perché “perfetta/ e irrequieta, già colma di memorie”. Sono scorci, dettagli, un virtuale puzzle, quelli che coglie, di volta in volta, l’autore: gesti, nomi, sguardi, atti, idonei, tuttavia, a ricostruire un’umana vicenda dai risvolti drammatici. Ogni parte del racconto termina con la parola mondo. Ci si può chiedere il motivo per cui l’autore abbia scelto proprio questo lemma. Forse si tratta soltanto di un espediente letterario, ma si può, forse, avanzare l’ipotesi che Ramat, con questo termine, abbia voluto evidenziare la specifica e totalizzante esperienza di ogni vita, che è in sé sempre un hortus conclusus.

Nel libro vi sono altre sezioni, dai titoli altamente suggestivi: Orzo in tazza grande, Di là del muro, Il tempo, Le date, In boccio e in bozze, nelle quali l’io del poeta rimodella le suggestioni delle tematiche a lui care: l’amore, il tempo e la memoria, con la costante consapevolezza di una parola, capace di realizzarsi in un raffinato alternarsi di equilibri stilistici ed espressivi. Pochi sono i fiori destinati a morire “in boccio” nel cassetto segreto di Silvio Ramat, perché la sua scrittura non dirompe mai in “folli voli”, innanzi ai quali la lingua, “mare compatto”, possa richiudersi.

Raffaella Bettiol

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.