Malaspina

Maurizio Cucchi
Malaspina
Mondadori 2013

di Rossella Frollà

Ogni società analizza il nuovo come qualcosa di poco chiaro e si compie spesso l’errore di sentire il presente e tutto ciò che ci permea come un quotidiano inquinato e inquinante eppure guardando anche al passato c’è sempre un margine di luce e la notte non è mai scesa del tutto. Ogni luogo da quello di massa dei nostri centri commerciali a quello di nicchia di una piccola libreria e ogni pulviscolo, ogni frammentazione condannata e demonizzata sono un pullulare di vita, di ricchezza nuova ma soprattutto nulla può non essere per la poesia: «[…] quasi/mai ci inoltriamo perdendo consistenza, verità, norma/la storia che ci ha portato qui.». Eppure una memoria involontaria si fa improvvisa nell’invisibile del presente e rintraccia «le acute muffe» dentro la «solida quiete» di «piante mature». Malaspina Di Maurizio Cucchi come molti altri libri usciti di recente da autori che vanno da Antonella Anedda, Pierluigi Cappello a Nino De Vita, a Daniele Mencarelli, Alba Donati, Giovanna Rosadini, rivelano una direzione diversa da quella che vuole una certa sociologia contemporanea intenta a divulgare il disvalore come fenomeno irreversibile di una normalità acquisita. Nulla di ogni cosa può risultare totalmente negativa. Ogni giorno la luce torna al suo posto ma noi continuiamo a totalizzare il buio forse proprio perché non ci accorgiamo del giorno. Penso alle relazioni forti e fondanti che ci permeano e non c’è una velocità superiore che ci possa attraversare così tanto e intensamente. Penso a Òmini di Nino De Vita, a Figlio di Daniele Mencarelli, a Tema dell’Addio di Milo De Angelis, ad Anabasi di Antonella Anedda: «A volte i malati guardano le macchine, in vestaglia, in pigiama/a volte leggermente bendati./Nei loro corpi c’è una gloria sottile.».

In Malaspina tutto il sentire si fa ignudo, prossimo a un mondo «più affabile e poroso». E questo sentirsi ignudo nel desiderio di abbracciare ogni cosa col ricordo e di pervenire ai sentimenti e agli odori in vista di un bene che si attacca all’anima stima ogni cosa con un valore nuovo e intende e gusta e immagina quanto più si assottiglia la distanza dall’origine. Le miserie tornano ad essere «rumore di lava che trabocca/orribile in eruzione» e le grandezze le aspirazioni dinanzi a tanta luce o la «sapienza veloce e naturale dell’infanzia». Diventa importante intrattenere un dialogo con lo sguardo obbediente, immobile e muto che è arrivato fin qui quasi senza sapere. Sono gli occhi e la piccola fronte di un Novecento fanciullo che si rialza dalla guerra e si racconta con la sua «obbedienza e normale fiducia/nell’ordine semplice e quieto». Ma c’è anche l’Io estraneo e solitario di una sconfinata vita interiore che non si fa mai rovente o ghiacciato, si porta altrove, in un desertico svuotamento che attende la metamorfosi come sorgente d’acqua, parola che risale le aree oscure e fragili dell’anima, le ipnosi apatiche e crea: […]Se cadeva, aspettava paziente/qualcuno a rialzarlo, immerso/nella grande obbedienza/e nel disinteresse, ombroso,/del mondo e delle cose che vanno.». Una tipologia dispersa tra milioni di uomini restituisce la sua copia, si assottiglia l’oggettualità  minimale propria di Cucchi.  L’apatia minuziosa, che ha scelto il dettaglio delle cose in Il Disperso, ha un Umanesimo nuovo  che parte da Vite pulviscolari  e arriva fin qui di notte, senza peso né storia, solo, con le antiche immagini. E «Un filo c’è», «un senso/di presenza e adesione nel comune/destino.» Meraviglia e angoscia arrivano a filtrare la nostra storia senza infingimenti, in «Religio», nel bianco totale dove la memoria cerca un varco per sedimentare quanto le appartiene e il quotidiano si ricongiunge con ironia alle sorti del mondo e ai suoi gesti senza farsi affabulare dal tempo. Una certa correlazione a distanza agisce in modo istantaneo su ciò che era: «[…] e intanto io,/di fianco e sempre altrove, sorridevo,». Ma il tempo in questo libro non è alla fine e Malaspina è il sogno che guizza dove nulla è liquido ma fisso e attaccato a qualcosa di solido che contiene un «laghetto» e ancora altri paesaggi aerei, i gesti dei grandi e un bimbo che sembra essere sempre estraneo ad ogni luogo, un’Io altrove. La parola mette a nudo l’esistente, le relazioni fondanti della persona e della sua straordinaria ricchezza e vulnerabilità. Profondità archetipiche danno vita a immagini potenti che sono la qualità originaria dell’infanzia. I ricordi si fanno traccia straordinaria da mettere a fuoco per incontrare l’oggi. Una orizzontalità dell’umano è inevitabilmente completa quando diretta alla visione e al sogno nei due poli: del desiderio di un bene nostrano sedimentato e del prendere atto di «un vago sfacelo infagottato». Le ore che sfuggono si prolungano in mille dimore di dettagli e in tante altre triangolazioni di antiche immagini. Le donne degli anni quaranta, La biglia di vetro iridato e un diligente retentissement fanno di un accordo poetico ciò che restituisce la qualità dell’infanzia, l’unità delle immagini e le potenze paterne e materne del Novecento. Il ricordo apre la porta a emozioni che entusiasmano come la «traversata di Milano» o danno dolore: «[…] del nostro transito ignoto,/gioioso sforzo e lamento.» C’è nel narrare un’apertura al mondo, un invito a spiccare il volo. Il Console di Lowry è il transfert che traghetta l’Io e il mondo sgretolato e sbriciolato, la risonanza di «un animo solitario» verso quegli odori e ombre che si ritrovano chiudendo gli occhi. E’ l’humus di quel fuoco che presiede all’origine, al di là dei ricordi conosciuti e al di qua ci rende riconoscibili i giorni di un tempo altro che è stato e ci consegna una realtà minuziosa e provvisoria che si palpa. Torna l’allegoria appassionante della maschera che in altri libri ha dato vita a Glenn e a Rutebeuf e si muove in una corrispondenza che riferisce il fascino e il distacco del personaggio, la potenza dell’identificazione e dell’estraniamento. Il sognatore si fa memoria davanti alle cose più solide, a una valorialità che non resta anonima in un luogo perduto del mondo.

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