Nel respiro della Natura

La raccolta poetica di Umberto Piersanti, di recentissima pubblicazione, Nel folto dei sentieri (Marcos y Marcos- 2015), riunisce liriche scritte dall’autore nell’arco di un tempo che va dal 2009 al 2013. È un libro estremamente denso e significativo: suddiviso in sei sezioni, comprende all’incirca cinquantasei testi poetici. In quasi tutte le liriche è riscontrabile una tensione costante al poemetto, che supera di gran lunga il ricorso al frammento lirico, pur presente nell’opera dell’urbinate.

Il titolo ha un ampio portato simbolico, in quanto a livello metaforico apre ad un vasto orizzonte psicologico e spirituale. La nozione di sentiero, infatti, se su di un piano di lettura simbolico viene a rappresentare il cammino, il destino spirituale di un uomo, sul piano naturalistico, ci riporta, invece, ad una cognizione geografica di luogo. E quando quest’ultimo assurge ad universo poetico di un autore, entra in simbiosi con la sua storia, con il tempo della sua memoria. Diviene, come disse Vittorio Sereni, riferendosi ad Attilio Bertolucci, una patria poetica, sottolineandone l’approdo ad una maturità espressiva in cui il senso del luogo, divenuto oggetto di trasfigurazione, si trasforma in uno spazio che diventa universale, dove l’autore ritrova le proprie origini, la fonte primaria della sua ispirazione.

Sappiamo che la patria poetica di Umberto Piersanti sono i luoghi persi delle sue amate Cesane, celebrate Nei luoghi persi, raccolta definita da Carlo Bo Georgiche di carattere familiare, dove l’autore, innanzi all’incanto d’una natura incontaminata, ritrova le sue origini, i suoi affetti più profondi, legati ad un mondo contadino magico e fatato, ormai scomparso, che rivive in una nuova mitologia personale.

I versi di questo nuovo libro hanno il respiro stesso della natura, che accompagna le vicende esistenziali e memoriali del poeta, con la sua straordinaria forza consolatoria, lungo i più diversi sentieri: “ma se sulla terra/ ti distendi/ con l’erbe sopra gli occhi,/ i sassi accanto/ si perdono nell’aria/ anche i dolori”. Piersanti chiama ogni pianta, ogni fiore con il proprio nome, dà loro una particolare forza simbolica ed impressionistica. La ricchezza e la sontuosità degli elementi naturalistici rammentano il volume, precedente la celebre trilogia einaudiana, intitolato Passaggio di sequenza, caratterizzato da un’intensa musicalità, dovuta all’endecasillabo, il metro stilistico in cui è interamente composta. In entrambe le raccolte, infatti, oltre alla dimensione memoriale, è riscontrabile una percezione della bellezza, sia artistica, quanto paesaggistica, che risente di un forte impulso della lettura de La Recherche di Proust, considerato dall’autore il più lirico, in assoluto, dei romanzieri.

La vicenda umana di Piersanti, complessa e dolorosa, giunta ad un limite, in cui la minaccia del tempo esige risposte, forse impossibili da raggiungere, nel suo nuovo scritto è narrata con accenti di essenziale ed intensa liricità: i versi brevi, quasi spogli, esaltano il potere evocativo delle singole parole.

Il dolore è una nota presente in tutti le raccolte piersantiane, anche se con sfumature ed intensità diverse: un dolore che nasce innanzitutto da “un sentimento di perdita”, dallo smarrimento innanzi allo scorrere inesorabile del tempo, che non concede mai tregue. Del resto, pure il mondo arcaico e fatato, pervaso di piante e profumi, nel quale, da sempre, l’autore si è rifugiato, non ne è mai stato esente: “anche se non lo cerchi/ un luogo lo trovi/ che sia il tuo;/ chiaro e riparato,/ ma si drizza la serpe/ o latra il cane,/ una presenza c’è sempre/ che l’oscura”.

Nel libro questo sentimento, tuttavia, si accentua, quasi si radicalizza. La ricerca dell’attimo perfetto, così insistita nelle precedenti raccolte, qui assume una valenza totalizzante, ma difficilmente raggiungibile: “il tempo non scegliamo/ e le vicende,/ l’unica libertà/ resta la fuga,/ così fragile e breve,/ così assoluta”. La sofferenza per il figlio malato d’autismo non dà tregua all’animo del poeta, il quale lo vede progressivamente allontanarsi, con gli anni, in una dimensione di totale chiusura e smarrimento: “eri in un altro tempo,/in altro spazio,/elfo con la cuffia/nella piscina/sguardo che non conosce i giorni,/non sa i dolori,/ oltre alberi e muri/lontano e perso,/ora non reggo il volto/dal male segnato/ e offeso”. É un amore tenace e faticoso quello che lega il padre al figlio, che detta al poeta urbianate versi di straordinaria intensità lirica: “figlio mio delicato,/ così difficile e distante,/forse sarai staccato/ dalla madre,/tu a lei intrecciato/più del muschio/ che risale lungo/il tronco torto”. Nella lirica Se t’inquieta primavera, l’autore richiama il mito di Proserpina per evocare l’assurda forza, che ha rapito per sempre il figlio: “Jacopo anche tu/ da una forza nera/ scelto e devastato,/ solo che quella donna/ risale ai prati,/ sparge i fiori tra l’erbe/nei capi di grano. Ogni rinascita, ogni guarigione è, quindi, negata al figlio, il quale rimane chiuso nel suo castello misterioso. In questa lirica, evocatrice del mito, è possibile rilevare alcune assonanze con la poetica de Le stagioni di Giuseppe Conte.

In quest’opera piersantiana si evidenzia una più accentuata connotazione del reale: l’urbinate parla, infatti, delle “forme immense di metallo bruno” delle moderne costruzioni, della nuova casa, dell’acqua azzurra e trasparente di Sirolo, tra lecci e bianchissime rocce; è scomparsa la fata Morgana che conduce il pastore in un luogo dove “il vento è più lieve”, ed in egual misura è svanito quel sogno dal quale l’autore non voleva più risvegliarsi. Come un vecchio marinaio, il poeta, avvolto da una bruma immensa, non ritrova più la rotta. Anche la memoria degli anni dell’infanzia, il suo amato nido, sembra talvolta frantumarsi. Preme, infatti, l’urgenza d’una risposta ai fondamentali quesiti dell’esistenza; l’autore divenuto spettatore delle vicende e della moltitudine d’uomini, che gli passano accanto, si chiede con insistenza quale significato possano avere quelle infinite esistenze: “vengono da ogni vicenda/ e da ogni storia, confusi/ nelle vesti e nelle lingue,/ non sanno ciò che viene/ e quel che è stato,/ le falangi degli uomini infinite,/ il vento le disperde/ come rena”. La dura colluttazione contro il tempo, da sempre presente nella poesia di Umberto Piersanti, acquista in tale raccolta toni ancora più accentuati e angoscianti. Piersanti si sente assediato, incalzato ormai dagli anni, che scorrono inesorabili e cerca inutilmente d’opporsi con la forza delle parole: “al tempo che m’incalza/e che m’assedia/ s’oppongono tenaci le parole”, ma invano, perché l’uomo da ideatore è divenuto prigioniero del tempo, quasi schiavo.

Sant’Agostino, nell’undicesimo passo del libro delle Confessioni, si chiedeva: “Cos’è dunque il tempo?”, e con umiltà rispondeva: “Se nessuno m’interroga lo so; se volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so. La dimensione del temporale è stata sempre presente nella riflessione e nella creazione letteraria, ma nel Novecento, quest’ultima, come è stato messo in rilievo da Alessandro Castellari, si è posta al centro di una contraddizione fra l’ossessione moderna del tempo e la sua qualità non misurabile, che spesso solo i poeti possono cogliere: l’attimo ineffabile, la rivelazione epifanica.

Se il tempo della memoria nella poetica piersantiana è referenziale all’infanzia, perché solo il ricordo legato ad essa è capace di filtrare ogni sensazione arricchendola, dando ad ogni percezione una valenza infinita, il tempo della cronaca è da rifuggire, per opporvi la ricerca di un tempo aurorale. Ma il raggiungimento dell’attimo perfetto, nel doloroso presente, è divenuto arduo da raggiungere: Nella lirica Le ore e i giorni, pervasa d’un romanticismo dai toni nordici, scrive l’autore: “se il canalone scendi/ e lì riposi/ tornano le vicende/ e i pensieri/…la miglior sorte/ è quella della pietra/ che perdura eterna/ dentro il gelo”. La vita umana è, dunque, permeata di sofferenza, anche perché è destinata a durare un breve istante e a svanire senza alcuna possibilità di rinascita. Una tale visione pessimistica, è, tuttavia, confortata in questo libro, da una decisa e tenace Erlebnis cosmica: “l’Aperto che ti cerchia/ è sconfinato,/ tenero sì, ma Assoluto”. In questi versi si può avvertire la grande lezione de La ginestra di Giacomo Leopardi.

Se il dolore e il tempo nel suo cieco fluire costituiscono i demoni, contro cui è chiamato il poeta a lottare, la memoria, la natura e la bellezza dell’arte sono le forze in grado non solo di confortare, ma di illuminare gli intricati sentieri dell’esistenza. Nell’intensa e luminosa poesia Il sogno del cavaliere, ispirata al celebre quadro del Raffaello, l’ansia di risposte esistenziali dell’autore non si placa, innanzi alle “tenere membra” “ormai quetate” di quel giovane cavaliere, che sogna: “ma il cavaliere conosce/ la sua meta?/ sa dove conduce/ la bianca strada?”, eppure la voce del poeta sembra distendersi in una pacata estasi contemplativa: “un luogo non l’attende,/ il suo cammino/ un cammino eterno/ e infinito.”

Il mondo poetico, già straordinario di Umberto Piersanti, in conclusione, viene ad arricchirsi e ad impreziosirsi di sfumature e di originali prospettive, pur rimanendo costantemente fedele alle proprie tematiche fondamentali e a quel sogno d’armonia assoluto, da sempre ultima aspirazione dell’autore.

                                                                                       Raffaella Bettiol

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