La tradizione padana e l’universo sanguigno di Cesare Zavattini

Cesare Zavattini

Cesare Zavattini è stato una presenza culturale onnivora nel panorama secondo-novecentesco italiano, ricordato magistralmente da Attilio Bertolucci, suo allievo nel 1928 al ginnasio Maria Luigia di Parma, che lo definì “sanguigno, volante, concreto, fantastico, imprendibile, indefinibile, inclassificabile”. Un grande sceneggiatore di cui basterebbe ricordare il lavoro preparatorio per i film di Vittorio De Sica: I bambini ci guardano (1943); Sciuscià (1946); Ladri di biciclette (1948); Miracolo a Milano (1950); Umberto D. (1952) e L’oro di Napoli (1954).

Zavattini è ancora una voce polifonica, pietra angolare nella comparazione delle arti, comprese quelle visive, autoesclusosi dal recinto dei generi predeterminati sin dagli anni Trenta. Ritratto di Zavattini scrittore (Imprimatur 2014, ma la prima edizione uscì nel 2012) di Gualtiero De Santi (saggista, critico che si richiama all’orizzonte metodologico della comparatistica) focalizza questa multidisciplinarietà del funambolo nativo di Luzzara (1902) e morto a Roma nel 1988. Ne mette in luce immediatamente il “carattere divagante e lunare”, il proliferare in tutte le direzioni: “dal ductus narrativo agli eventi che accadono ai suoi margini; dalla misura dell’occhiello a quella dell’articolo, del reportage e del raccontino; dalla letteratura al giornalismo, alla pittura”. Fino ad arrivare al cinema, ma passando appunto per una letteratura a tutto tondo priva di una saturazione della forma, di una melopea, di un manufatto unidirezionale. Il cinema, in fondo, si annoda alla narrazione, così come ad ogni altra forma di scrittura, se per Zavattini l’ideale di un film consisteva nel seguire un uomo, come dichiarò, dalla sveglia fino al momento in cui va a dormire. Un uomo qualunque, da zoomare nella più assoluta fedeltà. L’allusione è al fenotipo di Charlie Chaplin, figura dall’impronta lacerata, drammatica, nel sincretismo tra immagine terrena e spirituale, perturbante e curiosa, un po’ derealizzata, che rappresenta l’apice dell’antipersonaggio che tanto piaceva a Zavattini.

L’esordio in narrativa avvenne nel 1931 con l’editore Bompiani in una delle opere rimaste più famose, dal titolo Parliamo tanto di me, che ottenne un coro lusinghiero di consensi, che ebbe un’infinità di paragoni perché potesse essere incastonato in una linea ben definita, o meglio in una tendenza dell’epoca affine alla tradizione europea. Come annota De Santi qualcuno parlò di chiarezza minuziosa di una miniatura fiamminga, sfumata, arcana; qualcun altro di umorismo brillante a dimensione anglosassone. Resta una tramatura tipica di Zavattini, e cioè l’innesto, con nonchalance, del reale nell’irreale, dell’evanescenza di un sogno in un concreto riferimento di situazioni umane, ma anche la forza immaginifica di insinuarsi in un girone dantesco per riconoscere l’inferno entrando da un foro praticato nella volta di una porta, così da accedere al girone dei bugiardi seguito dal girone dei gelosi. Il paradiso è allietato da una visione fantastica, dall’eco di rumori celestiali, da una brezza gelata, da una luce siderale, sublime, da tetti d’oro e cupole di smeraldi.

Il surrealismo di Zavattini è tellurico, una sorta di reificazione di un’esperienza infantile e riprodotta nel divertissement della scrittura improvvisata. Una parte centrale del libro di Gualtiero De Santi si incentra sull’evocazione del fiume Po (si conservano anche documentari e interviste facilmente reperibili). Il fiume è la spinta a conoscere l’ambiente naturalistico, misterico, con l’acqua grigia e le nuvole che sopra gli argini assumono un colore cinerino, tra gli uccelli da richiamo e i barcari che parlano un dialetto stretto difficilmente comprensibile. La scrittura si fa liquida come lo scorrere del Po, mentre Zavattini racconta in modo teso, scabro, emulsivo. Straparole (Bompiani 1967) è da intendere come una commedia dell’arte dove all’adunata non mancano persone e cose, aneddoti, un clima buonista e ilare tradotto in un’antologia personale, in un manifesto della diaristica che tanto piaceva a Zavattini, nel testo chiuso e finalizzato. Ogni cosa, come per miracolo, tende ad assumere una forma, ad animarsi in un taglio “ellittico, surreale e picassiano delle immagini”, con la violenza di alcuni passaggi, di pensieri ulcerati, tesi, umoristici. Ancora una volta Cesare Zavattini se ne va in giro a cercare ciò che lo colpisce, che è degno di essere registrato, con un magnetofono in mano per bloccare la scena nel groviglio delle impressioni icastiche.

Lo stesso presupposto si avverte in Ritratto in versi di Ligabue, uscito per la prima volta nel 1968 (Franco Maria Ricci) e poi da Scheiwiller nel 1974. Qui la descrizione è dettagliata, in una sorta di bricolage dove si fa strada la personalità complessa e malata del pittore di Gualtieri, il suo espressionismo tragico, l’ossessività per gli autoritratti, l’atteggiamento parossistico, ma anche tenero e indifeso. Puntualizza Zavattini: “Tutti sanno che le donne si ritiravano dagli usci al suo passaggio. La sgradevolezza fisica del rachitico era aumentata dal male della mente e dalla conseguente sporcizia. Dovette diventare famoso perché una si decidesse a lasciarsi toccare e non di più. Egli era un uomo con un gran bisogno d’amore e non di terra lontana ma qui, anche un gran bisogno carnale, e invece non trovò mai il ventre di qualcuna che lo accogliesse”. Zavattini, per riuscire a restituire al pubblico una comparazione all’oscuro personaggio, cercò di immedesimarsi in Ligabue mimando i suoi stessi gesti. “Quell’immedesimarsi con Ligabue equivale a una rimessa in causa delle proprie ragioni morali e sociali. Lo scrittore mette mano ad una specie di autoritratto tra il pittorico e il filmico, o meglio di specchio virato su stesso e sulla collettività”.

De Santi compie anche un altro procedimento, che affonda le radici sull’engagement di Zavattini a stretto contatto con il dialetto di Luzzara, un impasto di basso mantovano, che però non è un’eco della memoria, né una lingua privata, ma l’espressione di una comunità dialogante. Il dialetto è il paese stesso, come l’epos contadino, il luogo dell’origine del grembo materno, dove la vita si riconosce e si fa riconoscibile a tutti. In fondo Cesare Zavattini, nelle tante vesti che ha indossato, appare un eclettico che sa ascoltare, farsi interlocutore silenzioso, dominatore della scena, come nello splendido volume La notte che ho dato uno schiaffo a Mussolini (Bompiani 1976). Il duce russa, mentre l’io narrante ha perso il controllo. Siamo di fronte ad un processo in piena regola, ma la scena è incrudelita dallo stesso pentimento di chi all’inizio aveva aderito al fascismo e non ne aveva capito lo scopo nefasto. Zavattini intuisce che le colpe del regime si sono allargate a macchia d’olio sino ad oggi, partorendo nuovi mostri. Lo schiaffo rovina sul fantasma di Mussolini, ma colpisce la società italiana, il suo carattere megalomane, corrotto, l’atteggiamento di un Paese intero, connivente e pavido. Lo scrittore accusa Mussolini e finisce per rivolgere la sua arringa alla storia, alla coscienza e alla morale.

Laico e materialista, terragno e surreale, Zavattini ha dato molto anche come animatore culturale. Si è speso per gli altri, si è decentrato volontariamente, non ha voluto calcare la mano. L’animazione era una vocazione naturale intrinseca al suo approccio artistico.  Si spiega così l’insistente richiamo ai valori che ne hanno caratterizzato peculiarmente l’opera. Zavattini, che sarà fondatore e presidente sino alla morte dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, si batté salvaguardando gli ideali per cui aveva iniziato la sua attività ottenendo riconoscimenti ambiti (tra gli altri il premio del Consiglio mondiale della Pace nel 1955). Tuttavia, fu sempre attento e disponibile con coloro che gli si rivolgevano per coinvolgerlo in avventure culturali. Si pensi al dibattito sul neorealismo, in quel sipario di parole che non è stato altro che la germinazione di un lungo meditare al di fuori delle consorterie letterarie e critiche alle quali Cesare Zavattini non ha mai voluto prendere parte, confermando un isolamento libero, da “favolista della realtà”. C’è una frase celebre che calibra il temperamento dell’uomo con il basco in testa e la faccia pacioccona, da contadino a riposo: “L’arte io non so se sia eterna o provvisoria, se la forma d’arte nella quale viviamo per molti secoli ci sia connaturata come sangue, ma so che questa carica, che noi abbiamo oggi, è una carica di comprensione della vita”.

Alessandro Moscè

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