Eliza Macadan: il passaggio da un cammino all’altro

I passi sono movimenti impressionisti che seguono un tragitto non deciso a priori, non programmato. Sono passi che hanno occhi mobili ben piantati in terra, che perlustrano e non lasciano nulla di evasivo, di aleatorio. I piedi della poetessa Eliza Macadan (nata in Romania nel 1967) catalogano, idealmente, ciò che vedono, nella nuova raccolta Passi passati (Joker 2016): una geografia sentimentale e per lo più irrelata. Qualcuno dice che si scrive di pancia, ma in questo caso avviene un’operazione di metamorfosi. E’ nella deambulazione che si trova la spinta per andare, per fissare “questa parte di tempo”, quella dell’al di qua, nel “vuoto che sta sanguinando”, come sottolinea l’autrice. Eliza Macadan scrive in italiano, non solo in romeno, e traduce anche dal francese. Il trilinguismo la investe di un microcosmo e di un macrocosmo, come annota nella prefazione Sandro Montaldo.

Nei passi si circoscrive soprattutto l’amore delineato nella diade luce/ombra (ci sono delle assonanze con Giancarlo Pontiggia), tra una camera d’albergo di un’anonima città e la vista dei tetti di Parigi (è evidente lo spleen di Charles Baudelaire), in riva al Danubio o attraversando un marciapiede nel viaggio di ritorno nella terra d’origine. Non manca l’archetipo dell’abbandono in uno dei testi più ficcanti: “ho avvertito l’infelicità / dal primo amore / ho avvertito il sapore della perdita / sul cammino che si srotolava davanti a me…”.  O ancora, sempre sul senso del passo: “ti ubriachi amore mio / ti ubriaco amore mio / con il passaggio di qua / nemmeno ora lo sappiamo / se questi sono i primi / o gli ultimi anni”. Eliza Macadan, stavolta, non tralascia neanche il presente, un teatro di guerra e di morte, l’uccisione, l’orrendo cedimento al male: “bombe con firme addosso / uccidono in riva al mare / sempre gli innocenti / il loro sangue / toglie la sete di vendetta…”. Il cammino è senza meta: infatti non si parte per arrivare da qualche parte. Il cercare delle vie simula il cercare la luce per intraprendere un cammino redento, salvato, quell’altrove dove è solo la poesia la rappresentazione di una “vita testarda”, il cambiamento di rotta per un sogno che si elevi al di sopra dell’accidentale, delle brutture di oggi, dell’occhio aperto sul terzo millennio tragico, dilaniato. Macadan affronta la dimensione storica e sociale, ma lo fa per illustrare il suo passo nella vicinanza e nella convivenza con gli accadimenti, non per un intento pedagogico, come si evince nella Lettera da Bucarest: “mi chiedevi ieri se ci sono ancora / bambini e giovani nelle fogne, / a Bucarest. / Non solo ci sono, ma ogni giorno di più – / ora anche in superficie / sulle strade…”. La politica e l’ideologia non entrano in questa poesia, ma l’attraversano icasticamente. Viene ripresa la strada di sempre verso il mare, la strada che dondola, che incolla le ruote sull’asfalto, dei “passi passati”, motore propulsivo nel rituale dei ricordi, dei segreti tra perdite e ritrovamenti.

Eliza Macadan sembra convogliare nella sua poesia un assunto dello scrittore e saggista uruguaiano Edoardo Galeano: “Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare”. I passi si spostano, appunto, mentre “il coraggio rimane quasi giovane”. Lo sguardo si proietta in una dimensione verticale intimamente affine all’aldilà (“un passaggio così breve dal verde al cielo”). Il presente pesa sulle spalle, sull’“asfalto spaccato”, “ingoia il tempo immobile”. In fondo questi passi potrebbero essere anche evitati, perché se si rimanesse fermi non cambierebbe nulla. La direzione, nel punto di fuga, ha più punti cardinali, più bussole orientative: “sto qui ma non mi chiedere di passare l’oceano / è già lunga la strada fino a Gerusalemme”. Anche la Terra Santa non servirebbe a sciogliere il mistero del camminare. La meta è sempre oltre, in un montaliano nulla da riempire, in un momento epifanico che si ripete imprevedibilmente.

Alessandro Moscè

 

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