Poesie di Sergio Doraldi

Pubblichiamo due poesie dell’autore Sergio Doraldi.

città vecchia senza luogo

assenti da quel che si vede
chiusi gli occhi torniamo a vagare
nei pensieri come nei sogni
stradine con selciato di ciottoli
solitarie dietro l’angolo ancora
una fontanella possiamo sentire
viottoli degli incerti pensieri
lontano dal traffico avvolti
in un orizzonte concluso
vecchie case di nebbia
incontri sperati
malìa per cui sfuggono
rampogna di gioventù non vissuta
e le facciate crepate dal peso
degli errori che scolorano in colpe
svaniscono come gli altri pensieri
con le catene di cause ed effetti
confini tra non essere e l’essere
tra i sogni e il veduto davvero
ma un po’ di porfido resta
per comporre la sola certezza
di quant’è invisibile dietro sfocate
leggi della natura, e mattoni
del sentimento del sacro, cemento
delle emozioni fuse a ragione
archi e cupole in alto a levare
accordati in costruzione coerente
di stanze con le finestre sul fuori
dove accogliere il prossimo
in ambienti di veduta illusoria
ma nei dettagli a racchiudere
un’idea della vita
del mondo all’esterno distante
perché trovino un senso
di là della seduzione del nulla
nel parlare oltre alle spesse barriere
con chi a quelle note risuona
nel ripensare i momenti
istantanei ma eterni
in altra percezione del tempo
che si vorrebbe ancora trovare
come il sapore di bocca
desiderata sopra ogni cosa
sorriso dai ricordi inseguito
tra malinconia e letizia sospeso
oltre l’orizzonte annebbiato
dietro alle pareti dissolto
mura adatte a racchiudere
un piccolo spazio al sicuro
dall’inganno del divenire
dove passi e voci risuonano
sorreggendo le arcate, invincibile
forza d’uno sguardo gentile
sogno luminoso sfuggente
e nulla lo può trattenere
in quelle povere stanze
a fatica murate sapendo
che non potranno durare

nec frustra vixisse videar

casuali barbagliano e ci disorientano,
si affollano lucciole tra l’erba e la siepe

ci incalzano e ribelli trascinano
emozioni che non sappiamo imbrigliare

per le strade sconosciute sviati
dalla malìa degli scorci inattesi

sulla battigia ondine s’inseguono
a ripeterci sommessa lezione

se l’ansimare calmo e ritmato
ingoia il sospiro della risacca

dorate corolle di margherite galleggiano
quasi sull’erba sospese con metodo

bianco fioccare di pioppi diffuso
ovunque nell’aria, un attimo immoto,

riluce, una segreta coerenza
trapela, costellazioni nel cielo

buio rimandano il richiamo dei miti,
del silenzio e profondità senza limiti,

e, invincibile, quello del nulla,
riaffiorano i volti che ci furono cari,

come l’aria a un abbraccio, ci sfuggono
con brevi sorrisi o sguardi un po’ mesti,

ribollire di solfatare sott’acqua
giunge a pena al pelo dell’onde

nel vento salsedine e finocchio selvatico
in sentore lontano aggrediscono e inebriano

armonia elementare, comporsi di stimoli
accordati come lemmi in teorema

il vento quieto della fine del giorno
evoca e s’avventura a riaccendere

i passati momenti di intravista letizia
le pene lontane nel tempo addolcite

le passioni per cui tormentati e travolti
ci siamo consunti, al fine sommersi

dai rimpianti come mare infuriato,
dai nostri errori, pulviscolo e sabbia

nelle raffiche su strade deserte
nel buio diurno, eppure quel vento

quieto della fine del giorno, richiamo
lontano nelle chiome degli alberi,

potrebbe creare un altro equilibrio,
non vuote concordanze di numeri

o di geometrie, piuttosto in mosaico
sussurranti emozioni in strutture complesse

composte, architetture romaniche,
per una prova o previsione teorica,

unità dell’affresco con minime
storie diverse toccanti a narrare

enigmi, forme di nubi al tramonto
fuse nel rogo dell’ultimo sole,

ciottoli trascinati da una risacca
ininterrotta, che porta lontano,

dopo intenso lavoro e pensiero
per accendere riposto sentire

non distinto dalle cime cui tende,
irraggiungibili, inconsapevole meta

che a pena traspare dopo lungo cammino
come un addio, terminato il respiro

reso con l’anima la mente ed il senno
nell’inseguire un vero vedere,

debole accenno nelle ultime luci
d’armonia, in fuga, in un lento svanire

Sergio Doraldi

note:

nec frustra . . . : grido di Tycho Brahe, ripetuto nel delirio dell’agonia.

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