Leonardo Sciascia, ci ricorderemo di questo Maestro

di Davide D’Alessandro

Leonardo Sciascia

Il denaro e, ancor meglio, la roba scatenano da sempre analisi  socio-psicologiche; ma dopo  Giovanni Verga, è Leonardo Sciascia con un racconto, Il lascito, contenuto  nella raccolta adelphiana Il fuoco nel mare, a dirci molto di più su un sentimento antico e tragico: l’attaccamento. È la storia di Calcedonio Fiumara, uno zolfataro che diviene ricco, ricco di ricchezza e di nient’altro. Lascia tutto a un manicomio, non certo ai nipoti, perché nessuno dovrà goderne. Adesso che la Sicilia, l’isola “bedda”,  anzi “beddissima”, si mostra come un vulcano apparentemente spento, dopo decenni di eruzioni violentissime, è possibile tentare una riflessione su quanto ci ha dato (e lasciato) Sciascia, uno dei suoi uomini migliori, a circa trent’anni dalla morte?

«Gli occhi di Sciascia sono monadi chiuse che hanno  visto tutto», esclamò Gesualdo Bufalino, l’altro scrittore finissimo e sicilianissimo. Sciascia non ha mai abbandonato la Sicilia, se non per brevi periodi. La sigaretta perennemente  accesa tra le dita della sinistra, la biro tra quelle della destra, il quaderno su un tavolino scarno, ne ha raccontato le trame più oscure con una scrittura lucida, essenziale, ma piena di sapori, esaltandone le ombre e i dolori, gli inganni e i disinganni, svelando i volti e le maschere degli uomini e del potere, degli uomini di potere, così ben dipinti con quel gusto amaro che attraversa le sue pagine, come la vita.

Nel 1987, due anni prima di morire, dalla colonne del Corriere della Sera, scatenò il putiferio con un articolo dal titolo I professionisti  dell’antimafia. Gli “spararono” addosso. Qualcuno ipotizzò persino una sorta di copertura del fenomeno mafioso, ma Sciascia aveva colto, conoscendo  la natura  umana, il rischio che si celava dietro le battaglie del pool di magistrati, di alcuni magistrati, di utilizzarle per un  interessato carrierismo. Vedeva la sua terra e la sbandierata sua rinascita morale usate per fini poco nobili. Del resto, Sciascia, tra lo Stato e l’uomo, appuntò l’attenzione sempre sul secondo. Così accadde anche nel caso Moro, quando il suo pensiero fu rivolto all’uomo, non allo statista. La trattativa avrebbe consentito all’uomo di riabbracciare la famiglia ma, di più, di salvare la propria vita, bene supremo che avrebbe pienamente giustificato la genuflessione dello Stato verso i brigatisti.

C’era un’ansia dell’umano in Sciascia, la capacità di scrutare nel fondo buio delle nostre miserie ancestrali. Da A ciascuno il suo a Todo modo, da Le parrocchie di Regalpetra a Il cavaliere e la morte, da Il contesto a Porte aperte, da La scomparsa di Majorana a L’affaire Moro, ci ha detto l’indicibile, ci ha svelato l’inconoscibile. Non alla maniera dei giornalisti e degli scrittori d’assalto, ma penetrando nel mistero e tenendo il crimine mai al di fuori dell’uomo, ma sempre dentro l’uomo, avvinto all’uomo, inscindibile dall’uomo. Come un suo risvolto, come una sua piega dolorosa. Come Vita & Morte.

Indro Montanelli, con l’inimitabile stile provocatorio, ha scritto: «Amici siciliani, tenetevelo caro, Sciascia. Non solo come scrittore, ma anche come siciliano. Nessuno lo è stato più e meglio di lui. Le accuse che gli sono state lanciate, o meglio insinuate, di eccessiva indulgenza verso la mafia sono del tutto fuori bersaglio. Sciascia non ha mai giudicato la mafia; l’ha spiegata, anche se non posso escludere che ne andasse un po’ fiero in quanto parte (e che parte!) della sua sicilianitudine, come il ficodindia lo è del suo paesaggio». Quel paesaggio che ancora lo tiene in grembo, che ancora lo serba in quel di  Racalmuto, suo paese natale, perché Sciascia era siciliano dapprima che la Sicilia fosse Sicilia. Sulla sua tomba ha voluto che venisse inciso «qualcosa di meno personale e di più ameno, e precisamente questa frase di Villiers de l’Isle-Adam: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”. E così partecipo alla scommessa di Pascal e avverto che una certa attenzione questa terra, questa vita, la meritano». Ce ne ricorderemo, di questo maestro, l’ultimo, vero intellettuale italiano, tra l’altro mai laureate.

Ricorda Andrea Camilleri: «Lui non si laureò mai. Riuscì ad avere un diploma per insegnare alla scuola elementare: riteneva che per un bambino, in Sicilia quegli anni fossero importantissimi e formativi, tanto da diventare una sorta di assoluto. A meno di non essere un altissimo maestro di filosofia non equivarrai mai all’importanza che ha per un bambino. Quando l’Università di Messina voleva conferirgli la laurea honoris causa, Sciascia rispose “…perché? Già maestro sugnu”, e questo sottolinea l’importanza delle scuole “vascie”, basse, le scuole elementari».

Spiega Jurgen Habermas: «L’unica capacità che ancor oggi dovrebbe contraddistinguere l’intellettuale è il fiuto avanguardistico per ciò che conta. Ciò richiede virtù tutt’altro che eroiche: il senso per quel che non va e che ‘potrebbe andare diversamente’; un pizzico di fantasia per progettare alternative; un poco di coraggio per l’asserzione provocatoria, per il pamphlet. Tutto ciò è più facile dirlo che farlo, e lo è sempre stato». Penso a Leonardo Sciascia, morto senza rimpianti e senza rimorsi.

 

 

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