Fuori stagione di Silvio Ramat

Già il titolo Fuori stagione (Crocetti editore, Milano, 2017) ci consegna la nota principale di questo nuovo libro di Silvio Ramat, costituita da una delicata, quanto intensa vena, malinconica: “vola basso la musica degli anni./ Forse tutto non crolla in un minuto/ma troppi convocati non rispondono/ all’appello.” Lo scorrere ineluttabile del tempo, le numerose voci d’amici ormai scomparsi, la giovinezza che torna con le sue immagini vivide, i suoi inevitabili conflitti, forniscono i momenti salienti di questa raccolta, contrassegnata da una particolare compattezza, pur nella varietà dei temi presenti nelle singole poesie. Una sorta di spaesamento o meglio d’esilio coglie il poeta quando rievoca luoghi, episodi, persone della sua giovinezza: un’alterità che non è necessariamente drammatica, ma è uno stato dell’anima per eccellenza poetico. Come del resto è fonte di poesia la memoria; per l’autore,  la dea Mnemosine, oltre a costituire le radici stesse di un’esistenza, ha anche una capacità propulsiva, forse ereditata e fatta propria dai poeti dell’ermetismo. La memoria, infatti, non nasce soltanto dalla necessità di ritrovare il passato, ma di ritrovarlo per guardare avanti, non retoricamente, ma per vedere un qualcosa che è davanti a noi e che la curiosità ci spinge se non a conoscere, almeno a tentare di indovinare.

In Piazza Bologna, anni trenta scrive Ramat riferendosi alle bellezze di Roma: “…Ammiro sbigottito/ le mura e gli archi a ogni viaggio,/ma/ troppo scarso gruzzolo di memorie/condivido con loro. E non si inventa/ non si cammina dove non è pianta/ di memoria…”. In questa prospettiva i ricordi diventano momenti costitutivi della poesia stessa, senza i quali ogni vera ispirazione viene a mancare.

Di intensa intonazione lirica, caratterizzata da un linguaggio scarno ma essenziale, sono i versi, che l’autore dedica alla madre nella V sezione dal titolo Tutti con te: “–Siamo tutti con te –le dicevamo/ per consolarla, per darle coraggio./ E lei con poca voce: –Tutti?/tutti chi?– Domandava/ confinata tra poltrona e letto, tra sfinimento/ e paura, il suo vero nutrimento.” È inevitabile ricordare, a questo riguardo,  il bel romanzo in versi di Silvio Ramat, che rievoca la vita e la figura della madre, edito da Marsilio Editori nel 2002, Mia madre un secolo, scritto in endecasillabi sciolti e discorsivi.

Il tempo, con il suo inesausto fluire, è una della tematiche principali della raccolta: il poeta vorrebbe fermarlo, farlo rivivere inseguendo i ricordi della sua cronaca familiare e non solo. Ritornano, quindi, vivide le immagini del giovane Ramat appassionato di calcio: se qualcuno gli chiede che età ora abbia  egli risponde : “Gli stessi di Burgnich, / di Albertosi..”, perché al centro del suo mondo adolescenziale c’era “il pallone”.  Naturalmente il flusso dei ricordi lo induce a ripensare ai cari amici poeti, con i quali ha condiviso momenti importanti della sua esistenza: Primo Conti ,Solmi, Bettocchi, Luzi ecc.. Già nel libro quasi autobiografico La buonafede. Memoria e letteratura del 2011,ricco di suggestioni, di memorie familiari, il poeta si era soffermato sul ricordo  dei maggiori poeti del secolo scorso.

Anche le case abbandonate da lungo tempo e gli oggetti ormai consunti per non uso, quasi si umanizzano, nella loro orfanezza, innanzi allo sguardo malinconico dell’autore: “nelle case vuote si va per piangere./ Gli oggetti che diventano cimelî./ Consumati giacché niente li adopra/ E nessuno”.

Una nota particolare della poetica di Silvio Ramat è l’ironia. Di sovente, infatti, egli tende a spezzare la tensione emotiva, ricorrendo ad uno sguardo malizioso e disincantato: nella poesia Loro chissà l’autore si chiede se possa essere rimasto un filo di voce ai nonni dei bisnonni, ormai divenuti cenere. Ma, forse, conclude, pur potendo parlare, probabilmente non sanno cosa dirsi tra di loro e, dunque, “I cimiteri sono per i vivi”. L’amore per la natura lo ritroviamo spesso in delicate immagini: “I pioppi non sono loquaci,/ però il chiarore grigio delle acque/ e i pozzi vivi accendono Rovigno nei suoi rovi. La siepe s’infittisce/ di noi lontani, è il segno dell’estate.” Ritorna in questa lirica il mito della siepe quale filtro, attraverso il quale una visione imperfetta della realtà dà alla mente  la possibilità di creare l’illusione dell’infinito e quasi dell’eterno. Nel breve poemetto L’ortolano l’autore racconta lo straordinario legame tra un fanciullo e un alberello di ligustro, pianta per eccellenza di molti poeti: “Desidera compagnia/  l’adolescente, comincia/a fissare quel ligustro,/ lo interroga/gli confida//qualcosa-no, molto- di sé./ l’alberello, tutt’al più, accenna/ una risposta se il vento /lo scuote o un’ondata di pioggia”.

Fuori stagione è suddiviso in IX brevi sezioni, l’ultima delle quali è costituita da un’unica lirica dal titolo Legna verde, nella quale l’immagine di un’improvvisa tempesta boschiva si fa metafora delle memorie adolescenziali dell’autore, che urgono nel suo animo: “Davanti a noi, la nostra adolescenza/ poco nutrita allora, prepotenza/ che si fa luce ai lampi e al tuono parla./ Chi tanto dissennato da fermarla?”.

In questo libro, non meno che in altri, pur nella sua specificità, emerge l’intero mondo poetico di Silvio Ramat, del quale punto focale è la memoria, che per l’ autore assurge ad un valore salvifico, in quanto capace di annullare ogni distanza temporale , coagulando passato e presente in un’unica sinergia poetica.

Raffaella Bettiol

 

 

 

 

 

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