Una sostanza sottile di Franco Cordelli

Appunti su Una sostanza sottile

È un libro che non si lascia  raccontare o, almeno, io non lo saprei raccontare, ma che pure t’intriga dentro una vicenda che scompare, riaffiora, si perde in una quantità infinita di rivoli. E proprio in questo sta il suo fascino. Se la vita non prosegue quasi mai in linea retta, provare a ricostruirla e riallacciarla attraverso la scrittura s’intriga in tempi e vicende che s’intrecciano in spirali e figure varie dove il passato, il presente, l’immaginato sono così connessi da risultare inscindibili.

E anche la mia lettura, che pure è stata precisa e continuata, qui si raggruma in immagini, in momenti particolari.
Certamente c’è un nesso continuo, quello del colloquio tra un padre e una figlia nel mirabile scenario provenzale.

La trama di Una sostanza sottile di Franco Cordelli (Einaudi 2016) è quasi impossibile dirla, il flusso delle divagazioni è troppo grande: ma ognuna di queste divagazioni  ci prende e coinvolge. Comunque una qualche traccia, una trama perdura: non si tratta tanto di una spirale ma di un intreccio interrotto e ripreso che poi dirama i suoi fili in modi imprevisti.


Il colloquio tra padre e figlia s’interrompe e riprende, conosce accelerazioni e abbassamenti. E procediamo anche noi per lampi e soste. Ed ecco i bellissimi squarci lirici sul paesaggio provenzale:
“Tu sai bene come la Provenza sia sole e vento, silenzio e paura, e un immenso, interminabile labirinto di piccoli centri urbani che tutti gravitano intorno al fiume, al Rodano, ma ne siano profondamente esclusi: bianchi e accecati dal sole, quasi non vi fosse un centro magnetico, come se anche il fiume, così imponente e di sé compiaciuto, rifiutasse di segnare una direzione o un orientamento-che invece c’è, ed è quel monte inespugnabile, sul quale si muore. Ricordi quando salimmo a piedi gli ultimi chilometri del nostro Ventoux, le strade che i ciclisti dilettanti non osano affrontare, quel pezzo di natura in cui non vi è più natura, non vi sono alberi, non c’è vegetazione alcuna, né animali: ma solo sassi e vento e pellegrini come lo fummo noi?” (p.19).

A queste pagine dotate di un grande fascino lirico che come poeta avverto in modo particolare, seguono altre pagine molto diverse dove predomina quasi una dimensione saggistica. Ma è una saggistica, mi si scusi il bisticcio, da romanzo, che entra perfettamente nel corpo del racconto. Perché in Cordelli libri, riflessioni, conoscenze più o meno fatte proprie, acquistano tanta importanza come le “cose” e le “vicende”:
“Lo sai che proprio qui una roboante bolla papale mise fuori gioco Meister Eckhart? Lo conosci? Hai letto i suoi Sermoni? Dio, scriveva, è una negazione della negazione. Ma io con questi concetti mi trastullo, non ci credo per un solo minuto. Al massimo, io credo nella cosa freudiana, come direbbe il professor Lacan: l’ho conosciuto, sai, mi guardò con disprezzo, mi rivolse la parola come fossi un malato che si accingeva a chiedere (a pagare) i suoi benefici: aveva un testone lungo, con i capelli lucenti, bianchi come il sole al mattino, quando c’è il sole, e aveva la cravatta, e una giacca a spina di pesce, sembrava un burocrate del ministero delle Finanze.” (p. 43).

E poi accostamenti tra epoche e situazioni diverse, magari raccontate con un tono “svagato” e  “leggero” ma sempre denso di senso:
“Ma ci sono i nomi. Quelli sì, possono essere cruciali. Indicò il nome Glanum, dal dio Glan. Chi era questo dio, a cosa doveva il suo nome? A me sembrava un nome come un altro. “Può darsi”, disse lui. “Ma forse no. Poiché sto invecchiando, poiché la potenza non m’è più naturale, mai mi sveglio cogliendo il prestigio del mio maschile vigore, associo, lo ripeto (a chi?), glanum a glande, la spada; ma anche ad ago, quanti aghi vidi quei giorni? Ma se la spada non è eretta, che spada può essere? E se gli aghi non trovano più la vena, che ne sarà di loro, ossia di me?” (p. 215)

L’ospedale è una presenza perenne ed incombente: la malattia e l’eventualità della morte vengono spesso esorcizzate o solo apparentemente esorcizzati da un tono talora svagato, quasi divertito. E questa leggerezza in realtà amplifica il tragico proprio sconfiggendo il patetico e ogni suo camuffamento. E nella complessità del vivere tutto acquista senso, altrimenti niente lo avrebbe:
“Ma l’idea della noia dei malati, costretti a letto, in una corsia d’ospedale, e fors’anche in una clinica, è un’infamità, dettata dalla presunzione che la vita cosiddetta dinamica dei sani sia una miglior vita. Non è esattamente così. Non pretendeva elevarsi a censore, tanto meno rovesciare l’ovvio. Non si può tuttavia dimenticare quanto poco accade nel moto e quanto accade nella staticità- nell’impedimento, nella prigionia, gli venne subito alla mente il ricordo di un mucchio di vecchi film, sulla condanna a morte, sulla prigionia, e sulla fuga.” (p. 217)

Molti i personaggi e così diversi, anche quelli vissuti in una memoria storica e personale come Petrarca che certamente non può essere taciuto in uno scenario provenzale. Alcuni personaggi sono particolari ed inquietanti come la psicanalista lacaniana che porta l’improbabile e sconcertante nome di Jung e Angélique, che bacia il cane sulla bocca come fosse un uomo: eppure non c’è nessuna morbosità nel racconto, l’occhio del narratore scruta senza troppo giudicare la complessità dell’umano.

Ci si può chiedere se nel romanzo ci sia qualcosa, di terreno o di trascendente, che ci salvi dall’insensatezza dell’essere e del nulla che sembra circondarci. Non rispondiamo alla domanda, ma chiudiamo con un brano di questo romanzo:
“Così accadde per Noris da cui volò in pochi minuti, meno di dieci. Volò nella sera. Era già composta  nel suo letto, lievemente più piccola di come era stata, vestita con cura. La guardò a lungo in faccia. Se proprio avesse dovuto dedurne un’espressione, quanto rimaneva della vita sua, avrebbe detto (pensava) che il viso era impercettibilmente felice. Ma era un’assurdità. Un pensiero tanto per credere di pensare. Si può essere felici o infelici nella morte? O, per essere precisi, ci si può portare nella morte, vale a dire nel nulla, la felicità che si è avuta nella vita?” (p. 257).

Umberto Piersanti

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