Milo De Angelis: ‘Tutte le poesie 1969-2015’, recensione

di Rossella Frollà
24 ottobre 2018.
Sala del Grechetto di Palazzo Sormani
Cinquant’anni di poesia

Milo De Angelis presenta
Tutte le poesie 1969-2015

Lo Specchio Mondadori

Salgo le scale di questo antico palazzo, con me le risonanze di altre vite, altri tempi. Il silenzio non ha lati, s’irraggia in superfici trasparenti di sole appena spento. Vi è però una chiave di quel visibile che vuole organizzare lo spazio e andare più vicino al cuore del grigio antico che si respira. E poi … come entrare nella poesia di Milo De Angelis? Nella sostanza di ciò che sopravvive a tutto. Milo è in cima alla scala che parla con alcune persone. Faccio per entrare nella sala, poi vinco la mia timidezza e torno indietro per salutarlo. Lui, calmo, come terreno d’autunno che al fondo ha già l’avvenire, mi guarda e mi sorride. La sala si riempie presto, prendo posto e frontali a me i relatori: i poeti e critici letterari Angelo Lumelli, Milo De Angelis, Giancarlo Pontiggia, Stefano Verdino.

«Cosa è la poesia?», dice Milo, e noi, tutti, avremmo voluto salvare quell’eco. Nelle nostri menti il ricordo del lapis che ci conduce lì, dove non sappiamo, nei luoghi in cui le cose si fanno da sé e ci scortano per i sentieri in cui il sé risale la coscienza e il visibile si fa cosa ultima, il nuovo spettacolo di tutto e di niente, lontano dai luoghi dell’esperienza e del pensiero, spazio radente e frontale a cui nulla è impedito di costruire, per cui nulla è stato creato ma in esso tutto sembra essersi formato. «Deve essere una creatura selvatica e imprendibile o forse una creatura che colpisce  da lontano con il suo arco sacro», scrive di Milo nel libro. E continua: «La poesia rivela qualcosa che già c’era prima di noi.». Sono i luoghi che tornano con i contraddittori «E ci chiamano, ci chiamano a sé, ci chiamano a giudizio: e noi, là, dove ci viene indicato, andiamo.». Poi spetta a noi rinominarli, chiamarli con il loro nome in «un avvicinamento più nitido del luogo al suo aggettivo». L’urgenza risale l’io e porta alla luce la permanenza del sé ricco di ogni conquista fatta, di ogni cosa amata e sofferta, ricco del «ritorno». Su questo binario vi è, per l’autore, il «Riconoscimento» del nostro destino, l’io riflesso nell’occhio dell’altro  e «attraversa la letteratura di ogni tempo», da Shakespeare al mondo classico mitologico, molto caro a Milo, all’abbraccio nel Purgatorio di Dante «tra Virgilio e Sordello» per un passaggio segreto che ci porta alla «riconoscenza» del «riconoscimento». Questa equazione urgenza/permanenza,riconoscimento/riconoscenza è il legame segreto dell’anima con la parola «la più necessaria, la più sconosciuta, e la più tradizionale, in un equilibrio instabile che è anche quello del poeta, creatura nella quale convivono nello stesso luogo un uomo spaesato e un uomo lucidissimo, un uomo che ha smarrito tutte le certezze e un signore del discorso,». Milo descrive con garbo e semplicità questo suo percorso continuo verso l’Alto: l’anima nascosta del richiamo torna ogni giorno  con le cose, il «ritorno»  assedia la parola che sta per precipitare. Esplode il magma in una nuova cosa che ha con sé  «la stagione silenziosa dei temi in classe» e lo stato di allarme, il phatos, il fuoco ardente e creativo del lapis che sta per «giungere alla propria via espressiva».

Gli archetipi contenuti nel mondo delle cose escono a illuminare le zone più segrete, i luoghi che hanno sconvolto e quelli che hanno bloccato e reso vulnerabile la verità;  la voce ardente «fuori da tutto, a volte anche fuori da se stessi» riporta l’eco della conoscenza, la qualità originaria a nuovi albori. Di ogni libro risuona la voce quando è tempo. E il tempo che torna è verdissimo, di rinnovate creature, non un tempo ciclico, chiuso, ma un tempo geometricamente a spirale. «Ciò che fugge e ciò che rimane», «l’attimo e la durata», «ricordo e profezia», «memoria e promessa», «singolare e cosmico» sono i contraddittori che preparano l’unità poetica o meglio l’unicità della rêverie,  dell’stante creativo, dell’epifania irripetibile, irraggiungibile, libera e potente, carica come nube di marzo  che al suolo scarica la sua forza cinetica e la sua profezia. La poesia è dunque una «parola data», un «patto d’onore» con la parola data, è magia che «sfugge alla definizione netta dei suoi contorni, è un fare che viene da chissà dove.  «Non cosa è,  ma sappiamo che ci appare e ci insegue come un annuncio, una bufera, un destino e quando appare lascia un segno indelebile, una ferita, a volte drammatica a volte meravigliosa, a volte fertile …».

Tutto tende all’immediato creativo e questo è il dono di Milo che si raccoglie nei versi di una vita spesa in nome della poesia e per la poesia. «La poesia è fragile, gli uomini sono fragili. E fragile, dice Milo, è un aggettivo che viene dal verbo latino molto bello, pieno di significati: frangere, vale a dire spezzare. Fragile è colui che vuole o può  essere spezzato, interrotto, che all’improvviso può precipitare in un luogo senza luce, senza parole, senza nemmeno noi, fragile.». Lo ascolto, la sua è la parola adulta che si confronta quieta con ciò che non è mai completamente ma che nella giovinezza del suo essere ha già la «venuta a sé del visibile». Ne sono testimonianza i testi inediti, giovanili che, in questo libro, concludono la raccolta delle poesie di una vita. Vi ritroviamo Somiglianze (1976), Millimetri (1983), Terra del viso (1985), Distante un padre (1989), Biografia sommaria (1999), Tema dell’addio (2005), Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010), Incontri e agguati (2015) e Poesie giovanili  (1969 – 1973).

Angelo Lumelli, amico storico di Milo, parla della poesia di quest’ultimo come di una parola sempre in comunicazione, biografica, là dove sii fa radice di vita, frontale dove è decisione, radicale nel porsi là dove non cerca l’artificio ma si ostina a rincorrere il destino del linguaggio con dinamismo, tensione aurorale. Lumelli ha conservato gli inediti giovanili di Milo e, come dono, li ha restituiti al poeta il 10 novembre 2016, giorno del quarantesimo compleanno di Somiglianze. È dunque un profondo conoscitore della sua poesia ed è stato un punto di riferimento del poeta per riflessioni filosofiche e confronti sulla parola, sul dettaglio a volte. Nella poesia di Milo vi è quasi un’aggressione, «la parola si carica di forza, di sfinimento», dice Lumelli, poi si posa adagio, in cerca del suo destino e si fa piena. «La poesia di Milo, ricorda Giancarlo Pontiggia, nasce fin da subito come urgenza espressiva forte e potente, già dagli inediti degli anni del Liceo. Nasce da un groviglio esistenziale» che dà luogo a un corpo a corpo con la parola. Nasce con un forte pensiero che rimanda a Nietzsche, Hegel, Blanchot. «Ma il pensiero non basta», continua Pontiggia, e la poesia di Milo sta dentro il pensiero, lo brucia, lo supera e io aggiungerei  «lascia alla parola il tempo di sognare».  Scrive Stefano Verdino nella postfazione al libro: «Il grande fascino dell’ultimo De Angelis sta nella sua capacità di parlare ostinatamente della incessante pervasione di fine, morte e nulla con perfetta serenità, data non da conforti metafisici, ma dal concreto richiamo del «nome amato» che continua a chiederci la «parola». Non ne decifriamo il senso («un disegno/di salvezza, forse, o un’esecuzione»), ma è comunque sufficiente che sia inespungibile la parola e con essa la poesia.» Non vorrei forzare la mano ma sento di dire che, nel mentre si riconosce la poesia come «dono» e la si lega al «riconoscimento» e alla «riconoscenza», si è già nella gratitudine che solo la grazia può dare.

 

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