La rottura dello specchio

Recensione di Poesie scelte: 1953-2010, di Luigi Di Ruscio, a cura di Massimo Gezzi, prefazione di Massimo Raffaeli

di Costantino Turchi

È facile scovare nella necessità espressiva la leva preliminare all’impresa artistica, fosse anche la più timida; altrettanto comune è indicare come suo fine la sopravvivenza: ponendo obiettivo al presente, nelle date coordinate, tale impresa può configurarsi allora – ed è un caso – come la lotta continua di un individuo contro le trame che il tempo gli muove addosso: chiara si fa l’ombra della sconfitta coincidente con l’oblio in questa chiave. Nella storia del nostro mondo è molto raro che qualcosa di integro riemerga da quell’ombra, ancor più raro che porti anche il nome del mittente scritto addosso: tra i frammenti rinvenuti dietro di noi, la difficoltà che un tale evento si verifichi aumenta maggiore è il periodo di oblio. Neppure il riconoscimento simultaneo, che pure può essere un sostegno incisivo, assicura la memoria dell’arte e del suo produttore. Per questi motivi si accoglie immediatamente con piacere Poesie scelte 1953-2010, libro antologico delle opere di Luigi Di Ruscio, a cura di Massimo Gezzi e con la prefazione di Massimo Raffaeli, edito da Marcos y Marcos in questo 2019.

Lo scrivente deve ammettere ora la sua ignoranza a proposito di questo autore: il presente libro ha instaurato la prima comunicazione con la sua scrittura, la quale si estende pure nel versante della prosa (dei romanzi è stata data una non lontana edizione complessiva). Ma lo stesso scrivente è portato a credere dalle suggestioni suscitate nella lettura di Poesie scelte che una conoscenza preliminare dell’opera – intera o di parti già edite di essa – non avrebbe cambiato sostanzialmente l’impatto che il libro ha avuto. La selezione operata da Massimo Gezzi e tracciata in Perché (e come) le Poesie scelte, assieme alla Prefazione di Massimo Raffaeli costituiscono un contesto operativo in grado di interfacciare il lettore direttamente con le poesie di Luigi Di Ruscio; offrendo le coordinate necessarie alla lettura di un contemporaneo, nascosto ai più e purtroppo scomparso nel 2011, calarlo senza farlo disperdere dentro la materia testuale, altrimenti potenzialmente torrenziale, come accennato dai critici nella loro solidarietà con l’autore. Il lettore si trova così tra le mani un libro a sé, autonomo e costruito ad arte, in grado di restituire nella sua compattezza più di mezzo secolo di lavoro in poesia a cui è difficile rimanere indifferenti.

La collana Le Ali diretta da Fabio Pusterla si arricchisce con questo libro di un simulacro, di certo fedele all’opera complessiva, che ricompone i connotati e le costanti della poesia di Di Ruscio, autore singolare ed eccentrico, si voglia per la sua vita, trascorsa alla periferia del mondo letterario e culturale italiano, tra la nascita a Fermo in un ghetto di sottoproletari e l’emigrazione a Oslo per lavorare come operaio, o per la sua scrittura, decisamente lontana da ogni altro modo rappresentativo del secolo trascorso. Per quest’ultima nota, si fa incidente l’arco temporale riportato nel titolo: le date tracciano gli estremi non solo di una poesia in fieri dall’esordio fino a poco prima della morte, ma anche grosso modo delle produzioni di altri autori che, ben più riconosciuti, similmente hanno esordito negli anni Cinquanta del Novecento e hanno continuato la loro opera fino al decennio scorso del nuovo millennio. Si mostra così nel libro una storia parallela, letteraria e non solo, in attesa di essere riconnessa, con la sua divergenza, alle altre storie poetiche di una generazione che è ormai prossima al suo completo esaurimento. Ancor più necessario, allora, risulta chiedersi di cosa consista Poesie scelte e quale mondo mette sotto la nostra attenzione.

Incontrare le poesie di Luigi Di Ruscio significa fare i conti con un cortocircuito esistenziale: l’operaio che scrive poesie nel tempo sottratto alla catena di montaggio è lo stesso uomo che, da poeta, proprio in quello spazio sottratto fa confluire invece tutto il suo tempo e la sua condizione. Niente di più distante allora dal poeta dotto, letterato, la cui poesia si costruisce sistematicamente con raffinazioni di diverso grado e tipo, il cui impegno tecnico fa apparire tale costruzione naturale e le sue prosecuzioni necessarie: il poeta che la modernità ci ha abituato ad apprezzare sempre più. Si badi: ciò non conduce necessariamente a una mancata coscienza del mezzo o a un’assente riflessione sulle potenzialità della poesia come letteratura, della sua posizione nella realtà, ovvero a una ingenuità principiante, e questo non è il caso; né l’autore è un illetterato o è distante dalle produzioni altrui, coeve e no, come è dimostrato in diversi luoghi del testo nei quali si trovano citazioni e aperti riferimenti, con tanto dei nomi degli autori da cui le citazioni provengono a testo, non di rado a seguito della stessa come se ricostruisse parte di un dialogo. No, piuttosto la poesia di Luigi Di Ruscio, mancando di una certa cultura professionale che ingenuamente (quando non ingiustamente) si accantona parlando di questo ambito, è riconducibile a una tendenza importante nell’arte contemporanea, quella dei naïfs.

Va da sé che il termine impiegato non esaurisce la recezione delle poesie, quanto invece apre problemi più specifici di identificazione dei fenomeni. I versi di Di Ruscio, che dall’esordio Non possiamo abituarci a morire (1953) tendono ad ampliarsi sempre più, mentre nell’ultima raccolta L’Iddio ridente (2008) la misura si abbrevia nuovamente, assemblano i più disparati momenti biografici a lucide visioni. Il procedimento non è dissimile da quello della catena di montaggio applicata ai flussi vitali, mentali e testuali («la macchina è in movimento ma molti pezzi della macchina sono tra loro immobili / un gatto quando si muove muove tutte le parti del gatto anche rispetto a tutto» p. 141): il taglio del verso non assicura né il cambio di materia né il suo proseguimento, inducendo così il lettore in una tensione costante e mai definitivamente risolta; la composizione si fa nervosa tanto nella diversità dei contenuti quanto nella possibilità che un periodo lungo lasci il posto a uno molto più breve. Nessun tentativo di sublimazione si fa spazio in una materia spesso cruda, che non si risparmia la descrizione di nauseanti particolari della vita in fabbrica («nel reparto dove lavoro bruciavano sapone in polvere / […] / questo universo sarebbe più sopportabile / se non avesse la puzza dei forni crematori» p. 125) o la dimensione biologica della sua relazione con la moglie («io faccio benissimo a meno degli uomini / del vostro cazzo ne faccio benissimo a meno / non mi toccare che per dispetto è venuto anche il signor marchese» pp. 203-204).

In un mondo industriale e materiale, politico e ateo, dio, angeli e demonî, inferno e paradiso, vi entrano come figurazioni dell’immaginario. A differenza della moglie o altre figure in terza persona, dell’io autoriale che a volte prende la voce del noi, questi non si configurano come attanti all’interno delle poesie: piuttosto, con le loro polarizzazioni, essi arricchiscono quadri in cui ogni cosa o gesto è già descritta con precisione aderente alla materia, e che spesso è ripresa qualche verso più in là – quando non in un altro testo, creando intermittenti corrispondenze tra una parte e l’altra – per essere maggiormente definita, riportata nella sua dimensione più concreta e vicina al vissuto, anche istantaneo, dell’autore. Massimo Raffaeli nota giustamente che «la poesia di Di Ruscio ignora la metafora alla stregua di una ambigua o bugiarda contraffazione mentre predilige a oltranza la postura metonimica» (p. 12): la poesia di Di Ruscio è infatti irremovibilmente fedele alla realtà di cui costituisce una propaggine, in cui ciascuna cosa è simbolo reale tanto della disperazione quanto della gioia, mai trascurata, che gli si contrappone nella vita.

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