Come un ago nel lago del cuore

Recensione di Il scappamorte, di Gian Mario Villalta (Amos Edizioni, 2019, pp. 50)

Un libro centrifugo ma compatto, meteoropatico ma ordinato. Quella delle contraddizioni intrinseche e degli enigmi insoluti è la sostanza che compone Il scappamorte di Gian Mario Villalta, edito da Amos Edizioni nel 2019 per la collana A27 poesia: l’antinomia e l’interrogazione sono il fulcro da cui parte e si dipana l’intera tessitura linguistica e testuale. Nessuna intenzione, fin qui, che l’autore non scopra o dichiari apertamente, a ogni piè sospinto, nelle sue pagine, e nei versi e nell’organizzazione di questi: se una qualche pecca è da indicare, si può forse rimproverare l’eccessivo zelo con cui, nel fine comunicativo, l’autore esibisce i temi e le questioni portanti.

Sull’oggetto indagato, sul carattere e sui modi dell’ispezione, non è lasciato alcuno spazio alla suggestione, all’intuizione del lettore – tutto è consegnato a chiare lettere, nulla è suggerito sottovoce della trama, di ciò che viene disposto: nessun velo appoggiato da ombra o profondità alla struttura che, esplicitata, si trova a coincidere con il pretesto formativo. Tramite massime, frasi e chiuse assertive l’investimento emotivo del fruitore è fatto convergere sul versante sensorio e immaginativo anziché su quello conoscitivo e intellettuale: affermati gli intenti, definiti i messaggi, l’attenzione si sposta sull’uso della lingua e sull’elaborazione poetica della materia, sulle situazioni presentate a modo di esempi e sul canale della loro trasmissione.

Dentro la struttura binaria del libro – sovra marcata con l’espediente tipografico e numerico – si distinguono infatti pregevolmente due impostazioni vocali, due differenti tracce che si intrecciano. Scorrendo le pagine come se si attraversasse una installazione video-sonora, a testi composti su intervalli sinfonici si alternano testi invece di diversa costituzione, forse atonali. Da una parte la tessitura fonica gioca su tutta la gamma delle figure di ripetizione e di identità, la scansione su una sintassi a dominante verbale; dall’altra parte la rima con le sue forme sembra bandita così come lo sembrano le figure retoriche più classiche, i versi si compongono quindi per tasselli, elenchi di sintagmi scanditi da una fitta punteggiatura e guidati da una sintassi nominale.

Se nella prima voce con la densità dei rimandi e delle riprese è accentuata la sensazione di continuità tra le interruzioni come nei ghirigori o le pieghe di un arabesco, nella seconda i contenuti parcellizzati in dati e informazioni sono accomunati in serie ritmiche, consegnando un quadro composto per pixel e bytes. È la diade di sogni che nell’incipit Villalta definisce e contrappone, il “sognare/ ancora un minuto un minuto per addormentare/ il sonno” e il “[sognare] un minuto un minuto ancora (ma sempre/ lo stesso minuto) da sveglio dentro il sogno”: una opposizione che si sviluppa e scambia di posto le sue parti attorno alla soglia che ha per centro, non rigida ma simmetrica come si potrebbe dire ricordando le logiche di Matte Blanco.

È la polifonia del testo a far allora emergere dalla struttura e dal pretesto tematico la chiave profonda, di natura psichica, del libro: la percezione e l’espressione della realtà, la posizione del soggetto al suo interno costituiscono questo teatro della voce poetica alla ricerca di sé stessa e di una sua conferma. Ci si potrebbe persino chiedere se il libro cartaceo sia il supporto fruitivo più appropriato ai versi che vi si trovano; se leggere le serie di testi in scansioni motivate da andamenti meno esibiti ma comunque presenti, come delle scene o degli atti, anziché seguire la bipartizione: tu puoi immaginarli proferiti in cori da una piccola compagnia di attori o da una voce monologante a cui risponde un registratore dalle casse, magari con un susseguirsi di immagini gettate loro addosso da un proiettore.

Con Il scappamorte Villalta chiude il decennio in una prova del tutto peculiare: mentre per struttura e impostazione tematica sembra avvicinarsi a delle prassi che si potrebbero latamente dire di ricerca, affiancando alla voce dell’io una correzione di scrittura mantiene a fuoco come prerogativa e meta l’istanza lirica, dimostrandola disposta a una continua contaminazione ed espansione di registri.

Costantino Turchi

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