Recensione di ‘O caro pensiero’ di Renato Minore

di Rossella Frollà

Renato Minore
O caro pensiero
Nino Aragno Editore
Milano, 2019

Nei versi di Renato Minore il pensiero è la narrazione progressiva del ricordo. Esce fuori dal suo nascondiglio nel mentre il sé risale la coscienza ricco di tutte le esperienze fatte, delle conquiste amate e sofferte, dei ritorni, delle ricordanze, dell’affetto primigenio, dei contraddittori. E il contraddittorio rende visibile la libertà che abbiamo di guardare a una molteplicità infinita, a una gioia, a un dolore più profondo quanto più siamo attaccati alle cose. Il pensiero che chiama la parola è la tensione aurorale verso la meraviglia, l’estensione del sé che riporta a galla quei movimenti sotterranei che ci appartengono: «Dopo due anni/la tavolozza era ancora bianca./Mi serve tempo/disse il pittore./Ma non lo dimenticherai/il profilo della montagna/il ciuffo di neve in cima/la neve gelò e si sciolse/altre due volte./Alla nuova scadenza afferrò il pennello/e con un solo gesto imperioso/tracciò il profilo della montagna/con il ciuffo di neve in cima.».

La montagna è Hokusai e arriva come specchio che riflette il bianco di dieci Tanka. L’io, sospeso tra il passato che non c’è più e il divenire che non è ancora, lascia che sia la parola a creare l’armonia tra antiche e nuove testimonianze letterarie: da Giacomo Leopardi a Kikuo Takano di cui il poeta ha curato la silloge Il senso del cielo. Tutta la potenza  della parola è in un presente che non muore. In ogni ricordo, in ogni sogno vi è il desiderio di non morire, la naturale tensione verso qualche cosa d’altro, verso quel desiderio nascosto che si fa possibilità di rendere visibile l’infinito.

Si accresce il tormento del pensiero che riconduce al triste dono di capire il mondo e le sue contraddizioni, ai primi presentimenti di ogni cosa che fugge e non è più: «il cane appare come/non sarà mai più». Ma si va anche per una rinnovata abbondanza interiore, in quel moto di tenerezza che scioglie e spande, come soffio di primavera, una vitalità troppo contratta e implicita. E sopra ogni lacrima luminosa, sopra ogni consapevole certezza dell’infelicità crescente e della nostalgia che sola e inanimata resta del tempo, vi è il bisogno di confidenza, estranea al tormento, vicina alla parola che rende «caro» il pensiero. E sopra ogni umana cruda certezza vi è la nostalgia dell’impossibile, la vicinanza di un pensiero lungo che accompagna il ricordo e il qui ed ora del destino.

Tutto quello che viene dopo nasce da questi momenti. La parola non si fa fuga ma bellezza sospesa che tiene lontani speranza e timore. Le rêverie volano alte sopra il pensiero e l’esperienza. Una felicità mai provata imprigiona e sprigiona l’anima del poeta e «il naufragar m’è dolce in questo mare» (Leopardi). Il pensiero risponde al richiamo delle cose e chiama la parola data, una parola che già c’era prima di noi: «Tu sei solo quel pensiero che è anche/la sola immagine del sogno, […]//In quel niente continuavi ad esserci.//Tu sei solo quello che riesco a pensarti». Sogno e ricordo accolgono le figure affettive quasi che il pensiero sia insufficiente a contenerle, che la meraviglia col solo pensare non si possa ancora raggiungere.

E una verdichtung, «una abissale incontinenza/a mescolare le cose dette e le cose pensate» possono aver sfilacciato così tanto il pensare e i sogni fino a rendere «tutto immobile/già deciso o già vissuto?». No, nulla è immobile, quel che già c’era prima, prima della parola è moto, moto del sé che si libera e ci chiama. E noi, lì ,pronti a rispondere, passo dopo passo mentre tutte le ricchezze che escono da dentro si impadroniscono del presente: «Che strana la lena del ricordo./S’arrotola e scivola/quel mio pensiero ma guai/a me se credo anch’io/di scivolare arrotolato.».

Vi è il sentire ambivalente del pensiero e di ogni cosa: l’io ha l’urgenza del controllo e il timore di restarne invischiato. La parola culla il sogno e il ricordo ma urge la libertà ad ogni costo da qualsiasi vincolo. Il pensiero che è il cuore del libro oscilla tra il desiderio di sprigionare l’anima e la volontà di contenerla. Ma come può un moto così scivoloso come quello che crea essere compresso dal solo pensiero? E anche quando la ragione sembra occultare la libertà della parola, l’immaginazione innesca la scintilla, l’ordigno esplosivo dell’anima e si compie la metamorfosi, l’armonia dei contraddittori, l’Unità poetica. La fragilità del pensiero si ricompone nella parola del poeta come arcobaleno delicato e temerario che unisce le sponde proprio là dove il fiume rumoreggia selvaggiamente.

E se la «felicità la vediamo di spalle» (Nietzsche), «Il presente si vede solo di profilo/è il passato che abbiamo di fronte.». Passato e presente sono i mezzi per l’avvenire e con essi ci prepariamo ad essere felici, con un pensiero al sicuro, «a prova d’erosione». È con questo gioco di ambivalenze che il poeta costruisce la sua ragnatela verso una parola sempre più perfetta. Una parola scortata al sicuro. Lo scatto a filo non è sulla corda tesa è il ritorno che si fa devoto all’«assillo della vita sfiorita». Il ricordo miniaturizza le incandescenze del mondo e ogni cosa si rimpicciolisce, si fa ultima per ridefinire la sorgente, la luce primigenia. La scintilla è la «fessurina» attraverso cui passa la riflessione sull’assenza, sulla mancanza, sulla perdita. L’intuizione è un pensiero lungo che «sfugge appena è luce». Un pensiero sui movimenti del mondo e dell’inconscio, una possibilità che abbiamo di «Stare a vedere ciò che accade/Come lucciole su un cielo azzurro». Scoprire i confini: «Forse il mondo/se non finisce/da qualche parte/ai bordi del pensiero/è comunque definito/dalla sua infinita estensione».

Trovo molto belli, intensi e raffinati i dieci Tanka: «Così grande ed esteso/così forte e potente/soavemente/regnava il bosco/sul nostro paese.». Due verità si fronteggiano: l’attesa come intenso, ritrovato nascondimento del lontano, dell’avvenire e la speranza come qualcosa che va più lontano dell’avvenire. La fragilità in questo libro ha dentro di sé «basculante il moto» delle cose, del mondo e le ferite. «Il moto della chioma» «di ramo in ramo, «di corpo in corpo» orienta l’occhio.

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2 commenti a “Recensione di ‘O caro pensiero’ di Renato Minore

  1. Gentilissima Dottoressa Frollà, mi complimento per il magnifico articolo con cui illumina la poetica di Renato Minore, non a caso un grandissimo leopardista,..ne mette in luce con precisione diamantina quella speciale ispirazione, quella struggente “nostalgia dell’impossibile”, la “bellezza sospesa” della poesia, la”parola che culla il sogno” : se la critica letteraria può essere terapeutica Lei è riuscita in pieno ad elargire la consolazione della bellezza illuminata dalla fiaccola ardente dell’intelligenza e farci vibrare e assaporare un pensiero poetico di rara felicità estetica. Grazie!

    1. Gentilissima Professoressa Gabriella Cinti, più a lungo guardiamo le cose e più grande è il mondo che vediamo nelle nostre parole. La ringrazio per il commento e l’abbraccio.

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