La luce di taglio di Elisabetta Pigliapoco

Una luce di taglio
Vertigine e misura nella poesia di Elisabetta Pigliapoco

 

“ho trovato il mio centro nella goccia
che scavava la vena all’avambraccio”

 

Viviamo da tempo in una stagione di posterità, in Italia come nel resto del mondo globalizzato, e in un’atmosfera sempre più alterata-intossicata, anzitutto a livello linguistico.  Accanto al respiro in difficoltà, la visione è opacizzata, così che la profondità sembra essere sparita a favore di una banalità nelle scelte sociali, produttive, culturali che il non-stile dello standard rappresenta. Ora di fronte a un linguaggio tanto impoverito, poeti di più generazioni sembrano trovare il loro comune orizzonte progettuale: una resistenza (e un rilancio?) dell’energia espressiva, che si accompagna spesso a una sensibilità-pietas per i luoghi e per le parlate.

Elisabetta Pigliapoco, dei nati negli anni ’70, ci offre, in questo contesto transgenerazionale, il suo contributo con “La luce di taglio” (Archinto, Milano,2018).  E tanto più risulta interessante il “libro” quanto più, nel contesto di cui si è detto, appare “parco e meditato” (G. Pontiggia, nella Prefazione). Un libro sì d’esordio, ma frutto di un “ventennale lavoro sulla parola e sul linguaggio” (Pontiggia).
Alla qualità, alla concentrazione punta questo “libro”; ed è questo che conta per un’azione di contrasto alla deriva mass-mediatica, e nella ricerca di riattivare la forza creativa del linguaggio. Nelle diverse sezioni del libro ritorna uno stile e un nucleo tematico. Sobrietà linguistica e controllo del pathos sono segno di una pazienza e una consapevolezza circa i limiti intrinseci al dire-essere: “noi che restiamo a terra/ affidati alla pazienza della risacca/ al lento movimento del ritorno” ( p. 41).

Poi vi è “l’equilibrio”, punto di arrivo-svolta dopo una prova che ci ha scavato: “L’equilibrio è un taglio orizzontale/ tra la gola e il petto. / È la bolla d’aria ferma/ in mezzo alla livella/quando neanche il respiro/è più certo. // ho trovato il mio centro nella goccia/ che scavava la vena all’avambraccio “(p. 37). Equilibrio come “raggiungere il punto fermo” (p.39); punto dicibile-indicibile: “Come dirti il colpo del vuoto/ il vento sulla nuca, la discesa/ quel cielo perso, la terra più vicina, / il principio, di nuovo?” (Ibidem).  Pretesto all’opera è un’esperienza annientante, che viene testualmente elaborata, secondo il ritmo di un dire che raccoglie, obbligando l’identità a riconoscersi “altrove” e da certi segreti riscontri: “È il mio albero a salutarmi/agitando foglie d’un giallo sorridente / chiama la luce alla fatica estrema”. (p.63). Molti versi dicono di una fine definitiva o di una rottura del piano delle cose ordinarie, come: “La foglia si spicca/si posa a coperchio/d’un dolore che s’arrende”(p.18); “nel buio che sprofonda/oltre la terra//nel rumore che divarica la trave/in una crepa longitudinale”(p.21); “È intermittente il fischio che solleva/ la forma del buio” (Ibidem) ; “l’equilibrio salta”(p.22); “ luce che sbaglia”(Ibidem); “Vento caldo entra tra le lenzuola/spagina pensieri uno a uno”(p. 25) ; “Il chiaro sfacciato/che mostra polvere e respiri, / il niente che rimane e che conosci.”(p.28)  Così via di seguito, fino all’immagine-emblema della luce: “Giorni maturi cadono dai rami/ebbri di sole e calore[…] la luce// ora si fa calda e densa/colpisce di taglio le figure,/ le accende d’arancio”(p.70).

Ora tra le immagini naturalistiche, atte a simbolizzare l’“imponderabile”, certo quella della luce si impone alla memoria del lettore e non casualmente ritorna nel titolo della raccolta (p. 68) E soprattutto quella che “colpisce di taglio”.  È per quest’ultima che infatti il mondo “s’adorna”, “mostrando il sangue della ferita/del tempo che t’è sottratto.” (p. 70). Luce “alla fatica estrema” (p. 63) insomma, che apre lo spazio e lo de-situa. Luce ancora come un taglio, che apporta un bagliore straniante e che proietta oltre i corpi un’ombra, come la parola lirica necessariamente resta allusiva. Questa luce segna un confine definitivo e senza appello, totale.  Questo “totale” è la cifra forse però di ogni scrittura letteraria votata alle esperienze liminari. Pasolini aveva scritto che in Dante tutta la luce è luce di taglio.

Ecco da dove sembra arrivarci più forte la voce della poetessa: da un suo (e nostro) affacciarsi su un versante ignoto, a metà tra opportunità e sottrazione, come può esserlo un sapere tragico o una malattia che offre conoscenza attraverso il dolore. Tema quanto mai classico e perciò sempre attuale. Il dolore che esilia, che es-patria. E la poetessa giunge a costruire dunque un altrove e ad aver cura di altre patrie, “poetiche”; ricordiamo, a tal proposito, di passaggio il suo impegno critico, ben rappresentato dalla curatela di saggi raccolti sotto il titolo Patrie poetiche. I luoghi nella poesia contemporanea (Pequod, Ancona, 2010).  Ma come giungere ad esse?  La poesia qui si fa “misura” che cuce lo strappo nella forma di un sopportare che solo le arcate del simbolo possono. Di qui la vicinanza col poeta marchigiano Piersanti, in cui poesia-natura-luoghi sono cerchi concentrici di una parola-mito, di uno stato cioè antecedente e pre-predicativo.  Ma si potrebbe risalire a Leopardi, al suo piano cadenzare di settenari-endecasillabi, per ritrovare un linguaggio, che se somiglia al paesaggio simile a un mare dolce di colline, lo sappiamo anche smosso da inquietanti correnti.  Il canto della Pigliapoco si fa, a suo modo, estremo e quale confronto col niente, convocando quest’ultimo e prendendone distanza. “Entra il vento. / Niente è più al suo posto/ svuotato è il sacco, / siamo tutti fuori/esposti alle intemperie” (p. 17). L’evento genetico che si rifrange nella memoria e nei versi è il ritmo di un fuori-uscire istantaneo, ad ogni istante, dalla monotona linearità del tempo cronologico: “Il cielo si apre e si chiude/ a intermittenza” (p.41). La pagina della Pigliapoco nasce spaginata: perché il niente convocato provoca un salto, un’irruzione: “spagina i pensieri uno a uno”.  Ecco il senso delle “intemperie” che la poetessa governa. Alla violenza aorgica, alla vertigine, la lirica risponde con altrettanta energia.  Questa risposta è la misura, di cui ogni poeta non può non avere esperienza. Ciò detto in altri termini: “l’equilibrio è tutto” (p.40). Ed è un equilibrio ricercato nei confini del linguaggio: “Il posto è la parola” (p.27). Il “posto” può coincidere con luoghi cari o, come si intitola una sezione del libro, con “Altri luoghi”. Luogo-di-parola comunque è anche la poesia stessa, capace di evocare Anemone “contesa dai venti” (p.47), ma anche Orfeo o Ludwig II, figure cariche di “risonanze misteriose” (Pontiggia). In esse si riassume forse una poetica di sdoppiamenti e contraddizioni, già volte, nel loro destino, a una ricomposizione sui generis, come dicono quei versi che includono la citazione tratta da un testo musicato da Monteverdi: “la fiamma, che covava piano, /il piccolo tepore del quadrato/che non smembra l’unità dal punto.” (p.28).

Marco Marangoni

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