Un carnale misticismo

Una sensualità totale, ma sempre alta, panica e priva di qualsiasi orpello attraversa la raccolta Nomadesimo di Valentina Neri edita da puntoacapo. “Lo spessore era quello del sogno / dove sussurri e sussulti della carne / sembravano lo spartito musicale dei palpiti”.
Questa dimensione panica è costante, il corpo è congiunto all’Universo. Nel giorno di Saturno ci si imbatte in una deviazione del destino.

Nessuna regola e nessuna pausa nel nomadesimo della poetessa, un nomadesimo che l’eros amplifica e allo stesso tempo porta a un senso di abbandono, meglio ancora all’estasi: “Arpeggiami come un liuto / per essere la tua musica […] Divorami una leccornia / e offrimi pure come un tuo possesso”.
Da sempre si è detto e scritto che il misticismo e l’eros sono strettamente imparentati: in genere, però, in questi casi di connubio, l’eros scarta i toni più “carnali”. Niente di tutto questo in Valentina Neri. Sì, ci sono momenti in cui bisogna pregare una mistica e inafferrabile bambina santa: e questa bambina santa è una figura primordiale, arcaica che viene prima di ogni religione. Il Bene e il Male, anche su di un piano assoluto che esito a chiamare metafisico, si incontrano e si scontrano: ci sono angeli neri che piacciono a Dio.
Non credo ad un’intenzione provocatoria, meno che meno a una polemica antireligiosa: solo questa comunione del Tutto. Un corpo fremente ed estatico, solcato da una gioia sconvolta e spesso sofferta, si fa misura del reale.

Il corpo è formato dalla stessa materia di cui si compone l’universo: acqua, fuoco, aria, terra.
Anche se sopra tutto questo pullulare c’è un tu che si snoda tra il fisico e il metafisico: a lui la poetessa si rivolge più con un’offerta che con una preghiera. E questa idea di un qualcuno che sta al di sopra viene confermata in altri versi: “Vi darò del Voi signore; / Vi darò del Voi / perché io sono miele / ma Voi siete Oro”.
Anche l’invocazione alla morte rientra in questa dimensione panica dove il tutto si compenetra nel nulla e l’estasi nel dissolversi. In questa prospettiva la morte diventa sorella Morte.
Sottolineiamo ancora questo tutto e questo nulla, un dissolversi che rientra nella pienezza dell’essere: “Mi spolpo pian piano la pelle morbida / e in brodo traduco / ciò che resta delle mie ossa.”

È un eccesso d’amore, una piena incontenibile, che spinge la poetessa a compenetrarsi nel tutto. C’è sempre, però, qualcosa di duro, di sofferto, di contrastato: quest’estasi mistica non è mai pacificatrice, non si è mai dentro uno stadio di beatitudine monacale.
Talora ci sono momenti di quiete, di ritiro dentro una dimensione “domestica”: “Cosa resterà di noi / tra le pareti di questa casa / che andiamo a lasciare?”.
Allora la storia diventa vita quotidiana da narrare, un ritrovarsi a guardare premurosi quei bambini che siamo e continuiamo ad essere per tutti i nostri giorni. Subito, però, torna questo complesso agitarsi tra vita e morte: e si può morire per gioia o per dolore.
E accanto alla morte, l’amore il più acceso ed erotico, come il più remoto ed astratto: “E un cuore che ama seppure non riamato / sarà sempre un cuore felice, e grato”.
La carnalità dell’amore, la sostanziale lontananza da una sua pallida e astratta figura spirituale, torna, però, sempre ad occupare la scena, a fare risuonare la sua voce: “amami! / e lascia che io possa donarmi / in completa carnalità […] Osa il mio corpo. / Osa i miei sensi. / Osa le mie lacrime. / Osami il cuore.”

La dimensione primordiale si affaccia anche nella figura della non malefica strega: “danzavo nuda sotto il Noce / al plenilunio, il Samba / della mia osteggiata stregheria”.
In modo improvviso ritorna, però, un amore totale, anche se privo di quella corporeità della quale è investito l’intero libro: “E non m’importa se non posso averti / dentro di me, fra le caverne / e gli anfratti del mio piacere […] Godo per la sola tua voce”.
L’amore totale non ha bisogno di essere ricambiato, di sentire rispondere “anch’io” al fatidico “ti amo”.
Il corpo e sempre il corpo torna ad essere il centro di questa poesia lieta e sconvolta, raccontato da una lingua fluente e inarrestabile, alta e feriale che non vuole e non può adattarsi a misura alcuna, che trova proprio in questa “piena” il suo senso ultimo. “Ma la memoria del corpo / non potrà scordare / l’esplosione di gioia che lo sconvolse al tuo contatto”.

Umberto Piersanti

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