Umberto Piersanti, Campi d’ostinato amore

di Luca Nicoletti

Campi d’ostinato amore: l’impressione, il sentimento immediato, suscitato da una primissima lettura di alcune poesie di Umberto Piersanti, rese note poco prima della pubblicazione dell’ultimo libro, era già quella di uno stato di grazia. Condizione inseguita e auspicata da ogni poeta, ma concessa con estrema parsimonia dagli dei che attengono alla creazione poetica. E i deserti campi misurati da Piersanti, richiamati da un titolo invero molto bello, appaiono attraversati sì in pensosa solitudine, ma non percorrendo un ozioso movimento di ritorno sugli stessi passi. Sono attraversati, piuttosto, seguendo una direzione felicemente delineata, mutante ma ininterrotta come una “calviniana” spada del sole, orientata nella notte da costellazioni capaci di comprendere un intero cammino esistenziale e di ricerca poetica.

Se lo sguardo è destino, il rito dell’incontro ripetuto, l’incontro improntato allo sguardo e all’ascolto, può creare le condizioni propizie per uno scambio empatico tra essere umano e natura, fra soggetto e oggetto, fra io e mondo. Quando si realizza questa intimità, siamo portati a dubitare dell’alterità stessa del luogo, della natura rispetto a noi, al nostro pensiero, alla nostra mente. La forma di ogni elemento naturale sembra rimandare a qualcos’altro, qualcosa di cui eravamo parte. E i segni disseminati sul territorio ci appaiono come tracce della nostra memoria, di noi stessi. Piersanti persegue, attraverso la descrizione e la nominazione esatta, precisa, quasi ossessiva delle piante, dei fiori e degli animali, il portato di un senso originario. Nel luogo elettivo delle Cesane, la campagna marchigiana degli altipiani vicino a Urbino, può svelarsi l’intersecazione fra mito e destino personale. Così il poeta, nella sincronicità dei ricordi che riaccadono senza vincoli di connessione causale, libera il luogo, e se stesso, dalla tirannia del presente (“da forestiero cammini/dentro il Presente”), e richiama i momenti vissuti dal padre soldato, dalla madre, dai nonni, e da una serie di figure reali ed emblematiche (“una diversa era/ti ha abitato”). La natura selvatica indagata con ostinazione è sì ossessione, ma anche alimento inesauribile della scaturigine creativa. Piersanti disegna la sua mitografia, richiama e ricompone la memoria, quasi mosso dall’interrogativo che Jung pose a se stesso: qual è il tuo mito, quello in cui vivi? La vicenda personale si innesta in uno spazio atemporale, attraversato dalle vicende di chi ha vissuto in un tempo che precede. Allo stesso modo il paesaggio collinare dell’Appennino, il segno onnipresente senza inizio né fine, dirige il pensiero oltre il piccolo universo locale, compensa la marginalità del luogo nella consapevolezza di un’appartenenza storica e mitica, prima ancora che geografica.

Quindi il mito, rientrato a pieno titolo nella poesia italiana all’altezza degli anni ’80, ma declinato secondo direttrici distinte. La poesia di Giuseppe Conte, per esempio, risale sino ad una dimensione archetipa universale, sconfinando poi in culture e latitudini lontane, mentre in Piersanti non viene mai eluso il vincolo che lega esperienza e luogo. In questo senso l’opera del poeta urbinate non si discosta dalla linea individuata da  Roberto Galaverni, comune alla terza generazione poetica italiana, per cui il riferimento diretto all’esperienza, e, quindi, il rapporto diretto col mondo e l’approfondimento del senso del luogo, ne è individuato come il portato più rilevante.

Piersanti ci rende partecipi, con la scrittura, del rito, gli elementi della natura sono ripetutamente nominati, alcuni, con più evidenza, emblematici, come la biscia: “e cambiano la pelle /le bisce inquiete/quando mutano i venti/e la stagione” […] “dal giorno che guardavi /l’acqua scura/quante pelli hai cambiato/che non si vedono?”. Il ritorno e il ripetuto incontro è condizione imprescindibile per accedere a quelle età e a quelle ore che continuano a ripresentarsi nello spazio metamorfico della selva separata, per il tramite degli elementi naturali più amati (“a quale terra antica/mi riporti,/a quale ora/fuori dei millenni,/acceso ciclamino/d’un giorno/d’acqua?”). L’intento è la ricerca del senso, non è consolatorio, perché “non sempre giorni/e giochi/furono gentili”, ma è vero che “per ogni generazione/c’è un’età immortale”. Così, le diverse sezioni costituenti l’architettura del libro, definiscono le stanze degli incontri: l’età dell’infanzia, momento privilegiato ma inconsapevole in cui il destino si manifesta, infanzia che si perde nel ricordo ma che mantiene un filo tenue (“ah! questa infanzia/che negli anni s’inoltra/e ti pervade”); l’età breve dell’adolescenza, a cui il poeta ritorna per incontrare se stesso ragazzo, con la raccomandazione di assaporare pienamente quel momento dorato: “tu resta nel trifoglio/quanto puoi/quella ragazza abbraccia/con gli occhi chiusi/l’età dell’oro è la più fugace”; infine il tempo attuale, escludente, percorso da forestiero con il ginocchio che non regge e si piega, e il senso di una presenza indefinita che incute paura, da cui occorre proteggersi “come il capriolo che s’imbosca/dove la macchia è più folta/tra spini e rovi,/è passato il lupo/ non distante”. Ma anche il presente delle epifanie, e della “…Galassia nella notte/d’inverno alle Cesane”, ancora istanti felici, il dono “celeste come il mare/d’oggi che i raggi/accoglie”. Il dettato mantiene il ritmo delle immagini che si presentano in continue associazioni, catturate dalla coscienza e dalle parole; il verso è breve e rifugge un’organizzazione più complessa e formalmente definita, l’endecasillabo incantatorio della trilogia einaudiana è ormai praticamente abbandonato. La poesia mantiene così leggerezza, si sviluppa in verticale svolgendosi in volute, catene associative che si intrecciano come la stessa struttura del dna.

Una delle poesie più belle, Il bosco di castagni, allude al tema della solitudine, ineludibile, puntuale nel ricordo del commiato dei tre giovani amici a interrompere il benessere di un tempo sospeso, la sua illusione di infinito (“ma prima che fa buio/bisogna andare,/ognuno prende da solo/la sua strada”). Il tema della solitudine richiama le poesie dedicate all’amato figlio Jacopo, con i riferimenti alle difficoltà di relazione e ai problemi dell’autismo. Jacopo e la sua vita, rinchiusa in un castello chiuso e separato che raramente abbassa i ponti levatoi, e solo “per un istante spezza/il sortilegio/che il tuo giorno assedia/ e ossessiona”, sono al centro dell’amore ostinato, emblema ed essenza di questo libro, come, del resto, di tutta l’opera poetica di Umberto Piersanti, sempre ostinato nel non cedere ai facili conformismi ideologici, né alle mode letterarie, tanto di successo quanto effimere. Jacopo, il cui isolamento sembra riflettere in qualche modo la condizione di estraneità dal tempo attuale sentita dal poeta, è vitale ma sempre inarrivabile, distante. E infinitamente vicino, nell’affetto e nelle parole del padre, e nel silenzio, quello stesso silenzio che l’esistenza oppone agli interrogativi della poesia, senza tuttavia riuscire a fermarne il cammino, che continua, imperterrito, per tramandare il canto.

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