Tra migrazioni e trasmigrazioni

Recensione di Tutti gli occhi che ho aperto (Marcos y Marcos, pp. 143, € 20)

Ormai ben definiti dalla critica, ci sono alcuni punti che si possono ritenere saldi nella poetica di Franca Mancinelli, topoi e argomenti che con dimostrata continuità attraversano le sue opere evolvendosi tecnicamente in stile e formulazione, approfondendosi secondo risvolti specifici e precise determinazioni: ma dovendo scegliere tra di loro una coppia, quella che si mostrerebbe sicuramente in primo piano per rilevanza e occorrenza sarebbe l’esperienza del viaggio associata alla relazione con l’altro da sé. Nella sua nuova raccolta, ripartendo da questi assi portanti, l’autrice prosegue quanto tracciato nelle opere precedenti, accogliendo direttrici inedite per tendere verso un nuovo piano concettuale: Franca Mancinelli in Tutti gli occhi che ho aperto (Marcos y Marcos, pp. 143, € 20) riunisce alcune costanti della sua poesia creando un tracciato che ricalibra la loro estensione significativa in direzione metafisica.

È nell’unitarietà del molteplice, nel sentimento di un’origine comune ai residui e ai frammenti che i materiali delle diverse serie testuali – sostanzialmente allotri – si radunano nel volume: specchiandosi una sezione dopo l’altra, prose e versi compongono un discorso capace di far trasparire attraverso le fratture la presenza di un senso soggiacente, di un principio in azione sebbene sottratto alla superficie. Due terzine dalla seconda di copertina e dall’epigrafe, di cui la prima estratta dal corpo della raccolta, si guardano l’un l’altra e incorniciano il titolo una volta aperto il libro; con un periodo dalla struttura formulare e condivisa, chiuso con una similitudine, avviano il circuito interpretativo che congiunge reale e simbolico:

queste pagine di cartilagine
sono lo scheletro dove ti aggiri
come un’ombra nel sangue.

[…]

non può disperdersi
si ricompone a ogni svolta
come uno stormo in viaggio.

Espressa attraverso circolazione e migrazione, la comune chiave semantica del movimento premette e attiva un duplice regime metaforico che riunisce visione interna ed esterna, senso individuale e collettivo – financo generale – nel percorso dell’opera. Seguendo questa nella sua interezza non si assiste infatti a una trasfigurazione complessiva, la quale comporterebbe il rischio di occultare in funzione del messaggio ulteriore gli elementi di partenza, quanto piuttosto a un perpetuo slittamento di immagini che nulla cede all’edulcorazione mentre espone invece con crudezza traumi e ferite. A proposito è emblematica Jungle, prima sezione del libro in cui l’esperienza della rotta balcanica è soggettivata con brevi prose che, prendendo voce in prima persona, gettano immediatamente nel mezzo del “gioco” per oltrepassare la frontiera (p. 13):

qui non possiamo restare altro tempo. È freddo. Non abbiamo più soldi. Ma possiamo avere fortuna. Prego ogni notte. Stamattina, tra le forcelle dei rami, mi è apparsa un’anima. Corrosa dalla pioggia, si stava lacerando. Stretta al petto di qualcuno e abbandonata dopo un lungo viaggio, ora si apriva al bosco. Una voce antica raccontava

[…] Gerico.
Era ricco […] gli chiese […] non poteva. […] .
Corse avanti […] .

Le attese, le valutazioni, lo stato di sospensione innescano una trama in cui il tempo e la sorte sono gli unici parametri che potrebbero fare la differenza tra successo e fallimento – «Questione di tempo, di soldi e di fortuna. I soldi li ha presi la nostra guida.» recita il primo brano (p. 11): eppure, una specie di gerarchia sembra emergere tra i due; è infatti la fortuna del ritrovamento e il caso dell’evento a dettare tramite mutilazione in lacerti il tempo della prima effettiva composizione in versi, «“L’anima apparsa tra le forcelle dei rami”» (p. 133) come chiarisce l’autrice nelle note. Si attua a questo punto un trasferimento: il tema del viaggio si interrompe sulla successiva scena di violenza (p. 14) che chiude il passaggio tentato; la soggettività in prima persona è annichilita e la voce si frammenta in schegge impersonali; i brani di prosa diaristici lasciano il passo a versi dove l’esperienza si reifica, in primo luogo nella scrittura stessa.

Cos’altro potrebbe essere in grado di tenere assieme nello stesso volume il punto di vista di una migrante bloccata sul confine tra Croazia e Serbia (pp. 11-14; pp. 127-131), quello di chi affoga nel mediterraneo (pp. 69-72) e quello intimista corporale, sebbene policentrico, dell’autrice? cosa potrebbe permettere di passare dagli occhi di un uccello lontano dal suolo (p. 22) a quelli che si aprono sulla corteccia di un albero (Alberi maestri pp. 23-35)? o ancora, cosa può dar voce tanto a degli antichi ex voto (Specchio ricurvo pp. 73-81) quanto a odierni scatti gestuali e figurativi (Tre sillabe di silenzio pp. 97)? Certamente una tendenza metamorfica non è nuova nell’opera di Franca Mancinelli, la quale ha anzi dato frequenti e felici prove di trasmutazione – ma ora la metamorfosi, con la varietà degli spostamenti, dà luogo a una metempsicosi verbale sorretta da una vera e propria mistica della parola poetica: e se «sono le perle del tempo, le morti / le attraversiamo come un filo.» (p. 18), se «si è fatta di grafite la pupilla / fissa la nebulosa / di punti che siamo.» (p. 20), i versi «tutti gli occhi che ho aperto / sono i rami che ho perso.» (p. 34) non possono più essere letti solo come metafora di uno stile che procede per ellissi.

In una lingua che vibra per distensioni e contrazioni, il tema del viaggio ripreso infine nel Diario di passo concede la cornice per approntare una cartografia dell’anima, una traversata da una riva all’altra in cui si segnano terre emerse e abissi con il contrasto tra il nero dell’inchiostro e il bianco della pagina. Contro il rischio di affondare, di scomparire nel silenzio, la poesia di Franca Mancinelli trova una soluzione interstiziale alla prosa nella possibilità della testimonianza, della persistenza nel tempo della traccia: accogliendo l’esempio dei manufatti cultuali ritrovati sul monte Titano, le serie che seguono Specchio ricurvo – e in particolare Frammenti per una dedica – sembrano accettare il voto all’enigma polifonico della vita tutta e di cui gli umani sono una tra le propaggini. Così, per equilibrio e compostezza, brilla questa figurazione (p. 60):

al centro il mistero, lo stame
del tempo. Crescono petali
e giorni. Non c’è vaso
né giardino. Soltanto
la terra. La luce. La pioggia.

Costantino Turchi

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