Massimo Parolini, Soglie vietate, prefazione di Umberto Piersanti, con sei immagini di Laura Parolini, Arcipelago Itaca edizioni, Ancona 2022.
di Claudio Tugnoli
I testi dell’ultima raccolta di poesie di Massimo Parolini germogliano sullo sfondo di una riflessione, anzi per meglio dire, di una constatazione che evoca la concezione buddista della natura delle cose. Che nulla esista di per sé, in modo separato e indipendente, è uno degli insegnamenti fondamentali del buddismo. Impossibile sostenere l’esistenza intrinseca del mondo o dell’io presi a sé. Nel buddismo, il fatto che tutti i fenomeni condizionati siano impermanenti, scoraggia il nostro attaccamento alle cose del mondo. Condizionato significa dipendente da qualcosa d’altro. Se scomponiamo analiticamente una qualsiasi entità nei suoi fattori ultimi, vediamo che questi ne rappresentano la condizione di esistenza e tuttavia ciascuno di essi rinvia a una serie di altri elementi e così via indefinitamente. Nessun fenomeno dunque esiste di per sé, niente è indipendente, niente possiede un’esistenza intrinseca, ma tutto è condizionato e interdipendente. Quindi è del tutto illusoria e infondata la percezione delle cose come dotate di esistenza propria, intrinseca, autosufficiente, perché di fatto ogni cosa del mondo deve la propria esistenza ad altro da sé. La natura di ciascun ente è la mancanza di natura propria: vacuità e impermanenza.
La poesia però non è deludente ammissione del dominio incontrastato del nulla: essa si giustifica in quanto memoria salvifica, canto di superamento della sventura che sfianca e logora e sfinisce ogni esistenza. La poesia incarna la più risoluta obiezione al nichilismo che rattrista l’animo dei giovani e ne spegne l’energia e la fiducia nel futuro. Il fumo che esce dal camino in un giorno d’inverno assume forme riconoscibili di esseri animati, «ma presto cresce e sale, / si disperde, / si raffina, / e non c’è forma / che sia uguale a quella di prima…/ tutto muta, immutabile, e ci chiama / e ci investe e ci chiede / occhi allo sguardo che dormiva…» (p. 11). L’evidenza del vuoto di tutte le cose non giustifica la negazione del valore di ciò che è stato. Ogni forma, ogni vita, se accolta dallo sguardo del poeta, rifulge di una bellezza immateriale e incorruttibile e così entra nella dimensione dell’essere sub specie aeternitatis, sottraendosi all’incalzare del tempo edax rerum e sfuggendo all’indifferenza degli umani. Il poeta immagina che «svaniremo, forse, pulviscolo fra le stelle», ma rivolgendosi alla «animula che il mio giorno sfoglia» la invita a «non chiamare la resa che consola…/ mi sei cara più della prima luce, se appari / – labbra d’ambra – e ti adagi / sul mio respiro insetto, tu che tessi / senza sosta / ogni ora la mia tela» (p. 17).
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