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Capitolo ’68
In occasione del cinquantesimo anniversario del ’68, intendiamo aprire un dibattito su Pelagos Letteratura sul momento più significativo della nostra storia dal dopoguerra ad oggi.
Non c’è stato nessun periodo più esaltato o condannato: mancano, a nostro parere, ricostruzioni e giudizi equilibrati.
Ho vissuto il ’68 e gli anni attorno nella piccola Urbino, che costituiva però un punto di riferimento per un’area molto vasta che andava da Rimini a Pescara e comprendeva larghe zone dell’entroterra toscano-appenninico, marchigiano ed umbro. Allora non esistevano facoltà distaccate da Bologna, Firenze, Siena. L’Università di Urbino aveva una sua precisa importanza ed era meta di delegazioni studentesche di tutta Italia.
Mi ero laureato da poco, insegnavo alle magistrali, a avevo un rapporto continuo con l’Università come collaboratore di varie cattedre umanistiche. Alle mie spalle una serie di iniziative di tipo sia politico che culturale. Nei primi anni Sessanta ero stato fra i fondatori del Circolo Luglio ’60 che aveva organizzato una serie di manifestazioni a sostegno dei movimenti democratici spagnoli, contro la guerra in Vietnam e tanto altro.
Essendo stato in delegazione in diversi paesi dell’Est, avevo potuto costatare con i miei occhi non solo le “lacune”, come allora si diceva, ma il fallimento pressoché completo del socialismo reale. Dunque ero immunizzato da ogni fede verso quella dittatura del proletariato alla quale si rifaceva la contestazione.
Gran parte del Movimento Studentesco riponeva una totale fiducia nella Cina, in Cuba, nel Vietnam: l’URSS veniva contestata, ma si era pienamente riabilitata la figura di Stalin sulla scia delle posizioni cinesi. I ritratti di Lenin, Stalin e Mao campeggiavano nel più duro dei Movimenti Studenteschi, quello milanese di Capanna e compagni. Anche Cuba era un punto di riferimento importante: Che Guevara vissuto come rivoluzionario, libertario e martire, ancora più di Fidel.
Altro mito era il Vietnam di Ho Chi Minh e i piccoli guerriglieri Viet Cong, mito amato anche dalla sinistra tradizionale. La politica vietnamita oscillava tra Cina e URSS.
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Rai Storia e il femminismo islamico
Apprezzo Rai Storia, ma la puntata sul femminismo islamico è stata assurda. Come ultimo esempio di femminismo islamico una martire fallita rigorosamente vestita di nero e con il niqab che le lasciava scoperti solo gli occhi. Fallita perché la polizia israeliana l’aveva arrestata prima che potesse farsi esplodere. Essendo la polizia israeliana un po’ meno dura di Hamas che avrebbe sicuramente ucciso un’israeliana trovata nella stessa situazione, la palestinese si era salvata. Intervistata da un’ occidentale progressista con pantaloni e occhiali da sole, aveva potuto confermare la sua disposizione al martirio che non annullava il servaggio verso il maschio simboleggiato da quello stesso niqab.
Amici di Rai Storia attenzione al politicamente corretto che si trasforma in ridicolmente corretto.
Umberto Piersanti
Quando stalinismo fa rima con fascismo
Ve lo ricordate Diego Fusaro, il ragazzetto infiocchettato e ultrafirmato disquisire alla televisione e altrove dei grandi meriti di Stalin e della tragedia causata al mondo dalla caduta del muro di Berlino? Bene, l’odio anti borghese del piccolo filosofo lo porta a preferire la vittoria della Le Pen nelle elezioni presidenziali francesi. Non importa l’origine petainista, il nazionalismo esasperato, il rifiuto dell’identità e della tradizione europea: l’importante è essere sempre e comunque contro il “capitalismo” e la “democrazia borghese”. I venti e più milioni di morti procurati dalla tirannide staliniana, gli orrori dei Khmer rossi, la spietata dittatura nordcoreana, sono ben poca cosa rispetto al capitalismo e ad un’ambigua ed ingannevole incarnazione dello stesso come la socialdemocrazia.
Fusaro è degno erede di quella intellettualità italiana che è stata prima fascista, poi stalinista ed infine innamorata di quella rivoluzione culturale cinese che, secondo gli stessi dati del ministero degli interni cinese, ha procurato all’incirca settanta milioni di morti. La differenza sta nel fatto che Fusaro si presenta meglio, usa un eloquio aggiornato e confuso tipico del populismo contemporaneo, si affida alle mode dell’eterodossia e dello stupore purché queste abbiano un impatto su un pubblico o incolto o tendenzialmente snobistico.
Ho discusso con lui al Festival Futura di Civitanova: si parlava dell’Africa. Fusaro parlava dell’asservimento dei nuovi leader africani al capitalismo europeo e americano, ma non sapeva nulla della presenza sempre più importante, massiccia e pervasiva della Cina nel continente nero. Le sue erano verità ideologiche fisse e precostituite.
Difendere lo stalinismo e il muro di Berlino significa offendere le vittime del despota georgiano e la memoria di tutti quelli che sono stati falciati nel tentativo di oltrepassare quel muro.
Non è poi così banale dire che gli estremismi si congiungono: il fatto che un filosofo della sinistra modaiola venga a preferire Le Pen su di ogni altro candidato “borghese” o “revisionista” lo dimostra.
Quel che fa specie è il peso che questo infiocchettato ragazzetto sta avendo in vari programmi televisivi e in alcuni festival culturali. In particolare tra la Romagna e le Marche, da Misano a Civitanova: i vari direttori, tutti rigorosamente di sinistra, alcuni magari apparentemente riformisti del Pd, fanno a gara nell’invitarlo ogni anno. Si tratta di un provincialismo mediocre, attratto dai fenomeni più banali e modaioli dei nostri anni.
E’ vero che nei nostri giorni chi trova il modo di stupire viene sempre ossequiato dagli incolti potenti di turno. Chissà se basterà il pronunciamento di Fusaro a favore della Le Pen a fare aprire gli occhi agli assessori e ai direttori di festival della sinistra sulla vera natura di questo contemporaneo “rivoluzionario marxista”?
Umberto Piersanti
Umberto Piersanti su La7
La7
Un editore che ha fatto fortuna con il gossip e gli amorazzi delle star.
Un direttore ambiguo e astuto che non si è mai esposto, ma che non ha mai cercato di dare una parvenza di equilibrio ai suoi programmi.
Giornalisti bravi come Formigli o scadenti come Paragone accomunati da uno spirito di totale faziosità, alla quale si accodano anche le trasmissioni del mattino e le pseudo satire di Crozza.
L’unico obiettivo: l’attacco totale e indiscriminato al PD e l’invettiva anti Renzi. Con il Fatto Quotidiano La7 rappresenta la punta avanzata della propaganda grillina.
Il Nobel del guitto e del menestrello
La morte di Dario Fo è concisa, lo stesso giorno, con l’assegnazione del Premio Nobel alla Letteratura a Bob Dylan. Giovedì 13 ottobre si è avuta la riprova che il mondo letterario perde sempre più colpi. La cosa del tutto singolare è che stavolta questa oscillazione in basso viene decretata dalle istituzioni. Premetto che non amavo Dario Fo, ma neppure lo detestavo. Mi lasciava indifferente e l’ho seguito ben poco. Occupandomi di critica letteraria da più di vent’anni, so bene, però, come nell’ambiente non fosse stata accolta positivamente l’assegnazione del Nobel al guitto, al saltimbanco, mentre era considerato il poeta Mario Luzi, tra gli italiani, il più titolato a ricevere lo scettro. Non successe e ce ne dispiacemmo in molti. Un verseggiatore, un attore più che un autore, un guascone con doti eccezionali, non ha deciso il suo destino sulla pagina, ma sul palcoscenico. Fo era un autore a metà, perché molto altro e molto di meglio che un autore. La scelta dell’Accademia di Stoccolma sembrò una virata verso il mondo dello spettacolo.
A distanza di vent’anni, la vittoria di Bob Dylan conferma questa tendenza che investe l’Europa e il destinatario del Nobel, un americano. Il menestrello, il cantautore, e non lo scrittore. Non Don De Lillo o Philip Roth, ma Bob Dylan. Giorgio Caproni diceva che la poesia è già musicale, la canzone no, per questo ha bisogno dell’accompagnamento dello strumento. Alcuni testi musicali, di per sé, non hanno senso poetico, né suono, né profondità. Anzi, sono piuttosto banali, una volta presi alla lettera. È appunto l’apparato musicale che crea l’atmosfera. La Svezia sovverte questa concezione e snobba i poeti, i narratori, in favore di un cantore ambulante. Eugenio Montale non avrebbe mai vinto il Nobel per la musica, ma la giuria, seguendo il criterio alquanto discutibile di quest’anno, avrebbe potuto stravolgere i ruoli. Siamo al paradosso: il guitto e il menestrello hanno invaso un’area che non appartiene granché alla loro sfera creativa. Se la letteratura non ha più la forza persuasiva di un tempo, sia nella concezione comune che da un punto di vista editoriale, il Premio Nobel edizione 2016 le dà una mazzata tra capo e collo. Leggendo i quotidiani, da Irvine Welsh ad Alessandro Baricco, a Valerio Magrelli, a Giuseppe Conte, c’è chi si interroga sulla decisione di equiparare libri e canzoni. “È come se dessero un Grammy Awards a Javier Marias”, sostiene Baricco, ”perché c’è una bella musicalità nella sua narrativa”.
Umberto Piersanti: è un errore il Nobel a Dylan
Articolo uscito domenica 16 ottobre sul Resto del Carlino.
Umberto Piersanti è un poeta e romanziere che con gli accademici svedesi ha a che fare dal 2005, anno in cui venne candidato al Nobel. La notizia del conferimento del premio a Bob Dylan lo ha a dir poco sconcertato. «Bob Dylan è certamente un grandissimo cantautore, ma le canzoni non sono poesia» è il suo giudizio tranchant. «Si tratta di un altro genere d’arte: se ne scriviamo le parole su una pagina bianca, esse perderanno moltissima della loro forza. La canzone è un intreccio totale fra parole e musica: forse allora sarebbe stato più normale e giusto assegnare a Dylan il Nobel per la Musica, se soltanto esistesse. Ora questo premio aiuterà tutti coloro che sproloquiano sull’identità poetica dei cantautori. Troppo facile, dal momento che il grande pubblico non conosce assolutamente la poesia e così molti intellettuali à la page si stanno precipitando a osannare questa scelta. Tra motivazioni politiche e tendenze populiste, il Premio Nobel sta intaccando il suo prestigio. Se si voleva premiare un americano, c’era a disposizione il grandissimo romanziere Philip Roth, che sul piano letterario resterà nei secoli ben più di Bob Dylan, il cui prestigio resterà sempre grande nel costume culturale e civile. Speriamo che il comitato di Stoccolma non continui con trovate che certo gli faranno avere qualche consenso, ma che si muovono in una direzione sbagliata, inducendo in noi un forte senso di smarrimento».
Tiziano Mancini
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Il Nobel a Bob Dylan
di Rossella Frollà
Soffiava nel vento la scelta del nobel a Bob Dylan.
Non appena lo Spirito si stabilisce nella vita di un essere, immediatamente l’immaginazione e il cuore popolare lo riconoscono e simpatizzano con l’essere che lo accoglie. Il menestrello spettinato con l’armonica in bocca racconta le storie degli uomini alla pari della grande scrittura. Non vi sono dissimulazioni nel semplice intrecciarsi delle superfici. Il materiale della vita nel suo mimetismo più sottile si sente al riparo nel suono di note e parole che vanno oltre chi le ama e le protegge. L’anima si concede al mondo tenera e imprudente, graffiata, amata e ferita. La dignitosa, autentica cultura popolare cui Dylan si abbandona è quella qualità originaria della poesia che non teme e non può temere l’abbraccio con la musica in un tutt’uno che si eleva a valore più alto, si fa segno universale, forma d’arte, alla pari di quella letteraria. In molti (Francesco De Gregori, Guccini, Mogol, …) hanno felicemente accolto questo inusuale, inusitato riconoscimento alla canzone che a pieno titolo entra nella Letteratura. E Dylan con le sue scelte sorprendenti, con cuore e genialità ha permeato la storia del secondo Novecento fino ad oggi. Quando l’anima e lo Spirito possiedono le stesse memorie, allora , i ricordi e le conoscenze nutrono, acquistano grande valore e le storie si fanno fuoco alto, bello dei suoi tanti volti. Così Dylan con la sua voce, con le sue note e le sue parole ci mostra il nostro vero volto, quella rete di qualità che ci portiamo dentro dall’infanzia, il chiarore originario fortemente percepibile da chiunque. In questo Dylan è universale. Si avverte nei suoi versi l’identità delle ombre intime, le freddezze e le storie dei silenzi. I suoni nascondono lo stesso mistero di tutti, i dubbi, e il nascondiglio da cui provengono è il sé che risale la coscienza e si concede al mondo schietto e genuino, per un magico destino che lo vuole sognatore errante, avversario di ogni indifferenza. Quelle spine spezzate in modo distratto e sgarbato, innocenti e poi mature con più dolore hanno raccontato il mondo.
The times they are a-changin (1964) obbedisce alla segreta potenza della poesia, alla sua pressione. La forma è l’abitazione stessa della vita. E così l’anima cede la sua parola. Come non pone ostacolo la dolce chiusura di un bottone a una leggera pressione delle dita, così, accumulare la conoscenza, propria degli eruditi, è «filosofia dell’avere» non del nutrirsi ovunque ci sia un’intimità con le cose, falciando l’asfalto e immaginando l’erba.
Lettera aperta a Carlo Smuraglia
Sicuramente i ragazzi di Rifondazione e affini che costituiscono le nuove leve dell’ANPI non possono sapere molto della resistenza italiana, ma Carlo Smuraglia avendola vissuta, la conosce bene. Alla Resistenza hanno partecipato i più diversi strati sociali e tutti i partiti antifascisti, dai badogliani ai comunisti. È vero, in particolare nelle zone del Centro e dell’Emilia, i partigiani garibaldini erano i più numerosi: è anche vero che furono quelli che si macchiarono di alcuni gravi crimini. Ricordiamo fra tutti l’eccidio di Porzus dove i garibaldini massacrarono i capi della brigata partigiana Osoppo tra i quali il giovane Guido Pasolini, fratello del grande scrittore. E ricordiamo ancora le varie uccisioni ingiustificate nel triangolo della morte, tra Modena, Reggio e Parma.
Tutto questo non toglie quasi nulla al valore della Resistenza che significava riprendere le armi contro il fascismo ed il nazismo, contro chi costruiva o appoggiava i campi di sterminio: i partigiani erano dalla parte giusta al di là di ogni singola azione. I repubblichini di Salò erano dalla parte sbagliata anche quando sul piano personale poteva trattarsi di qualche giovane idealista convinto di servire la dignità della patria.
Il più grande scrittore che abbia raccontato la Resistenza, Beppe Fenoglio, era un “azzurro”, militava dunque nelle formazioni monarchiche piemontesi.
Compito dell’ANPI è dunque quello di mantenere un’unità della memoria, una memoria riconosciuta da tutti che sia molto al di sopra degli schieramenti attuali e delle lotte politiche contemporanee. L’ANPI non poteva e non doveva pronunciarsi né per il sì né per il no perché questo significava entrare in uno scontro partitico, diventare fazione contro altre fazioni. In questo modo si giustifica anche l’opinione di chi non attribuisce all’ANPI una identità trasversale e nazionale, ma la configura come una parte della sinistra, magari di quella sinistra radicale che rappresenta solo il cinque per cento degli italiani.