Recensione di La figlia che non piange (Francesco Scarabicchi, Einaudi, pp. 148, € 13,00)
Edita postuma da Einaudi, La figlia che non piange è la raccolta con cui si accommiata Francesco Scarabicchi, venuto a mancare dopo una lunga e difficile malattia. Poeta marchigiano, tra i più rilevanti nel panorama nazionale del nostro tempo, Scarabicchi ha perseguito fedelmente una personalissima poetica caratterizzata dalla discrezione e dalla dignità. Non sorprenderà dunque che, nonostante la malattia, nulla nella composizione ceda al dolore o alla sua esibizione: piuttosto che nelle viscere della propria condizione, Scarabicchi con questo capitolo apre per un’ultima volta al lettore le porte di quel mondo altro, intimo eppure prossimo – non alternativo, bensì laterale – che è la sua poesia.
Chi l’ha conosciuta con Il prato bianco riedito da Einaudi nel 2017 ne ritroverà il lessico preciso, circostanziato, esatto e misurato che è posto alle sue fondamenta, ma non solo: egli entrerà in quella residenza di parole di cui esplicito è il principio («Non c’è altro luogo, credimi, che questo, / tutto il bianco possibile, la pagina / e poi quelle formiche delle righe / a dire il poco, il molto che noi siamo» p. 3); vedrà la casa appena rischiarata dalle presenze che l’hanno abitata («Chissà chi era quella luce bassa / che illuminava appena il tavolino, / bagliore calmo tra la sponda e il libro, / chissà se si chiamava come allora / o dalle vele degli anni trasformava / la voce in lume dell’inverno bianco?» p. 8); sarà accolto all’entrata dall’aiuola in cui gli oggetti preservano, grazie alla voce della memoria, una patina della loro possibile esistenza precedente («C’è la corona di conchiglie grandi, / una terra mai mossa, quasi legno, / il piccolo oleandro, una panchina / che forse è stata verde» p. 9).