La colpa e il suo senso ci isolano
come la parola senza la sua lingua
(Roberto Marconi, 2021)
“Il chiaro del bosco è un centro nel quale non
sempre è possibile entrare; lo si osserva dal
limite e la comparsa di alcune impronte di
animali non aiuta a compiere tale passo”.
María Zambrano
È un romanzo circolare quello di Tomerini e Lagazzi “L’isola della colpa” (Passigli Editore 2020) come l’iter di un essere umano: in conclusione si ritorna, anche solo con la mente, all’incipit: “Ci sono cose che devi fare, anche se ti costano il sangue”. Perché vivendo si muore ai contrasti (chiamateli come volete: giorno e notte, bene e male, yin e yang, ecc.), come il grande abbraccio del muro bianco di un convento, dove si svolge principalmente questo consistente racconto (il luogo è dedicato a Sant’Anastasia, da una ricerca scopro che il nome vuol dire “colei che nasce a nuova vita” come vorrebbe la Resurrezione e proprio ora porto a compimento quanto scritto, dove il 15 aprile è della venerata l’onomastico), anche se per le vicende che si susseguono e per la forte transitorietà lo spazio primariamente sembra più un tempio, il quale può affrancare o all’opposto rabbuiare/abbacinare di riflesso col sole (tale da tentare di spegner ad esempio la speranza d’un raccolto). Tra fede e incredulità, nel libro, si leggono storie che spaginano le vite degli interpreti, i quali sono in continua visita alle istanze sostanziali e insolute dell’esistenza che l’ascolto, la contemplazione, tra certezze e tentennamenti, diventano capitali. In un passo un protagonista afferma la grande difficoltà a credere ma “è meraviglioso osservare come gli esseri votati al sacro abbiano cercato di racchiudere in templi, celle o cappelle, in sale o cripte vibranti dell’eco di campane o di gong, inchiostri o eremi, in apsidi, sacrestie o battisteri ciò a cui non si può alludere nemmeno con le idee più acute della filosofia o con le metafore più audaci della poesia perché forse non è altro che il respiro della verità inattingibile”.