Sorvoli di Tiziano Broggiato

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di Rossella Frollà

Tiziano Broggiato
Sorvoli
Luigi Pellegrini Editore

La parola è l’incarnazione dell’idea nella materia, è la rappresentazione della Verità, vive della conoscenza ed è l’atomo del vissuto. E tutta la pluriformità e la complessità del processo universale che si crea attraverso la parola è l’assolutezza interiore e in essa si distingue la bellezza della qualità originaria di ogni cosa che genera il moto, il movimento interiore. E così per percepire l’idea è necessario che essa si incarni nella realtà materiale.

Talvolta, per Broggiato, la completezza di questa incarnazione è messa a dura prova e a rischio dalle pressioni del quotidiano, dall’urto con la vita e con le sue regole smodate e le sue ferite, le sue attuali frammentazioni: «Finirà che a luce spenta/scenderò anch’io sotto la linea/di galleggiamento fin dove i miei spettri/non potranno essere intercettati»  Se è vero che la parola è un patto stabilito altrove che detta e noi andiamo là dove essa ci chiama, è altrettanto vero che il contatto del sé con le cose e con le persone crea la visualizzazione dei suoni. Le rêverie sono i molti colori delle cose e le molte forme dell’attività umana, le molte bellezze interiori e quelle naturali. Le prime sono più rare delle seconde e questo è dato di spiegare alla parola del nostro poeta.  E allora la pienezza del contenuto o del significato, la perfezione dell’espressione o della forma, limate, pensate come varianti o correzioni sono inutili se non si percepisce l’idea che torna su dal sé, dagli alti fondali: «come un deposito di spezie che sta attendendo/il proprietario che ritarda.». Le ombre rincorrono il poeta come destino, minaccia, annuncio di un tempo stanco e rassegnato: «Di sicuro è un giorno, oggi, in cui/posso affermare che la pioggia/sta cadendo dal nulla.».

In questo caso la coscienza che da sempre si fa testimone della Verità comprende con tenera lucidità il rischio dell’urto. La dicotomia e la scissione fra la vita interiore, le emozioni realmente provate e la vita esteriore, che le nasconde e le fagocita nella sua corsa, inducono, paradossalmente a ripensare con più forza ai segreti inesplorabili dell’anima. Questo paradosso si fa senso necessario di quel moto che individua in ogni esistenza il silenzio, il mistero, il nascondimento delle penombre luminose, dei sentimenti, delle fragilità, delle diminuzioni, dei limiti, il nascondimento del valore assoluto di ogni creatura. Le problematiche del mondo rincorrono il poeta come un’antica lontana adolescenza non estranea alle radici della fragilità, della vulnerabilità nel mentre l’io è preso a guardare altrove.

Le sensibilità ferite inducono a una morte volontaria che l’anima prensile dell’autore intuisce con luminosa lucidità. Il salto profondo e radicale da questa adolescenza alla crescita della parola è il salto «lucente doloroso» che «Albeggia,/e i motivi per concedersi una seconda possibilità/non potranno che moltiplicarsi.». L’«unico lampione» sembra essere per il poeta la nuda realtà, vale a dire «l’annullamento» di ogni cosa, la fine, mentre il fine è lontano e vicina sembra essere solo l’erosione del tutto: «Il fiume viaggia verso il proprio annullamento,/[ … ] La sua voce è un sospiro febbrile,/quasi renitente. Nel duello che si consuma/lungo le ripide sponde del confessionale,/nessuno uscirà indenne.». La bellezza come tale nella sua caratteristica specifica sembra perdersi nella fine ineluttabile delle cose, ma poi sembra incarnarsi in quelle stesse cose e nelle meraviglie degli elementi, dei luoghi apprezzati, amati e conservati nella memoria perché «È tempo per il fiume/di iniziare a provare per la sua fine/un’adeguata espressione.». Lo scopo è quello di raccontare «la verità anche quando/è insostenibile» e si avvicina «la paventata ora serale». E «L’uomo confuso è forse guidato dalla «tenebra gnostica/che non vuole saperne di indietreggiare.». L’uomo confuso ha imparato/la lezione peggiore: la felicità/è un disincanto, un pedale irritante/in si bemolle il cui rintocco/punteggia ogni momento.».

È indubbio che il poeta vede l’Universo sotto forma d’una salita faticosa, cieca, dura, carica di peso, di responsabilità, di legami continui con la fine. Tuttavia una dottrina trasformistica, una scuola di speranza allevia l’ineluttabile verità del limite tramite l’occhio rivolto alle proprietà estetiche della Natura e a quelle tenui e rassicuranti dell’infanzia. In esse la materia diventa direttamente portatrice di luce, così che la natura acquista un’anima e nel suo moto rivela i caratteri della vita e l’infanzia si fa culla dove nascono le grandi domande che non lasciano ferite. È un salto luminoso che riflette il bene fra tutte le ombre: «Il bosco è vigile./Dalle fenditure sui tronchi/piccole bocche muschiose/evocano l’estasi lieve dell’infanzia,/quando il cielo non era ancora diventato/una sorgente impura.». Alla memoria la forza di attenuare «i vecchi segreti diventati docili/come una mandria di ruminanti al pascolo./Qui più che altrove /la rigida profezia della natura/ha gradualmente moderato la pressione/sul sordo pedale dell’esistenza».

E la realtà che si impone col dolore dell’anima, con l’inquietudine, con la tristezza e impone uno stimmung angoscioso, si stempera come d’incanto con la bellezza dei paesaggi che fanno quasi sempre da sfondo ad ogni componimento: «Così, il subbuglio delle nuvole si allontana/rotolando e sul verde crudo delle piante/torna, con tutta la sua compostezza/la tranquillità.». Ecco come l’Ordine ontologico, che detta le regole del bene primigenio, si esplica nell’incarnazione dell’idea, ossia nella manifestazione della bellezza nel mondo.  È quell’immagine dell’Unità universale che è espressione del tranquillo trionfo del principio luminoso sulla ribellione caotica o sulle diminuzioni. È l’eterna incarnazione dell’idea del bello come bene in tutto l’ambito dell’essere materiale. E la bellezza del cielo è solare, stellare, lunare. Paradossalmente, nel mentre il poeta evoca «l’irrevocabile», il tempo «irredimibile», esprime la verità della luna in tutta la sua bellezza che abbraccia un cielo stellato e una giornata finita: «Così, quando la sera prenderà il suo/umido muso,/la vecchia luna che sa tutto/sarà chiamata ancora una volta/a esprimere con la sua voce tormentata/l’irrevocabile.». Qui l’Unità poetica compie il suo miracolo di sempre: quando il tormento angoscia il poeta, la rêverie infiamma e cura e non ferisce e appare un logo quasi simile a un ordo amoris sul volto dell’inquietudine.

Il sonno di Lindbergh è la sezione in cui il poeta elabora le diverse forme della solitudine. Le riconosce, ne coglie ombre e luci, le emozioni più significative, i silenzi. È una continua sfida alla quale ciascuno di noi non può non essere chiamato. L’unica speranza sembra essere la memoria che restituisce l’immagine dell’infanzia come possibilità di avvicinarsi di nuovo al mondo con leggerezza, quasi contemplando le sue risorse.  E il poeta si avvicina a questa contemplazione ricorrendo alla figura di Lindbergh che attraversò con un volo in solitaria l’Oceano Atlantico nel 1927. E allora ben venga la grazia della solitudine che si fa risorsa e ristora, e si fa amata come nuova, nel cuore del poeta, quella memoria che accoglie.

Nel tempo in cui l’infanzia
durava più a lungo,
una pioggia mansueta,
come un cane fedele,
veniva a leccarmi la punta delle scarpe
sulla soglia di casa.
La terra, allora, era più vicina:
aveva una superficie simile
a quella della luna.

Le penombre che Broggiato attraversa in questa opera restano comunque un «tormento irrisolto» e ogni slancio sembra non avere la sua consecutio. Resistono le nubi che si caricano alte verso il cielo o basse verso le fragilità, i luoghi inquieti predestinati dove quel qualcosa d’altro che abbiamo dentro tuttavia non sta fermo.

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