Pubblichiamo qui di seguito le pagine iniziali del romanzo inedito di Michele Porzio “Il colore del silenzio” (2002-2007).
Sì, gli pareva che fosse successo di lunedì, non era sicuro però la chiamata era avvenuta di sabato, il sabato sera, successe tutto in tre giorni, può darsi fosse martedì, non poteva escluderlo, ma la sensazione era che fosse lunedì, e cominciato sabato. Il sabato verso le sei o le sette di sera, sua madre lo avvisò che doveva andare subito dal nonno, stava male, il cuore, un altro infarto. «È grave», chiese, «vuoi che ti accompagni?», sua madre rispose di no, avendo lui solo tredici anni non era il caso, ma capì che era grave perché sua madre quasi non si era truccata, si era messa un cappotto qualsiasi e aveva chiamato in fretta un taxi per andare alla stazione e raggiungere in treno il paese della Liguria dove il nonno andava a svernare, e quando il taxi partì, rimase solo davanti al portone di casa con la bicicletta tra le mani.
Aveva una bicicletta azzurra cui teneva molto, tanto che fece la patente solo a ventitré anni, la bicicletta era meglio, permetteva di girare per la città, notare i vari tipi di asfalto, i lampioni delle strade, quelli dei giardini, la vegetazione nascosta nei cortili delle case e questo andarsene in giro aiutava a pensare, al limite anche a non pensare, e in questo andare, trovava tutto, la felicità non era altro, consisteva nel girare per quella città grande, anonima e trafficata in un modo che sarebbe stato inutile tentare di rifarlo dopo, ma a quel tempo c’era questo girare per le strade di notte, andare a spiare i lampioni con i moscerini attorno, i pipistrelli, senza uno scopo preciso, solo per guardare i caseggiati, i monumenti, gli alberi anche se non parlavano, l’unica cosa che facevano era stare lì, come lui del resto. A tredici anni aveva già le chiavi di casa e di sera, al sabato specialmente, fino all’una di notte andava al circolo degli scacchi. Era sicuro che da grande avrebbe fatto il giocatore di scacchi, non lo fece, a quattordici anni preferì la musica, ma quel sabato non pensava ancora alla musica, dopo aver salutato sua madre sul portone di casa si avviò come al solito per andare al circolo e quando arrivava non smetteva mai di giocare, neanche per mangiare, si faceva portare al tavolo da gioco un toast e una coca, se qualche briciola di pane cadeva tra una torre o un cavallo, scusandosi puliva e una partita dietro l’altra andava avanti dalle tre del pomeriggio almeno fino a mezzanotte, quando era stanco usciva, scendeva in strada, si riprendeva la bicicletta legata a un palo con il lucchetto e tornava a casa.
Mentre giocava, la sera di quel sabato, seppe solo dopo cosa era successo, tornò a casa, andò a dormire tardi, dopo le partite a scacchi, gli piaceva leggere libri di storia o di mitologia ma la mattina dopo, fu triste, si alzò tardi come sempre la domenica, e verso le dieci, nel corridoio che dalla camera da letto portava in cucina, era ancora in pigiama per andare a far colazione, il tragitto era lungo, con la sua famiglia abitava in una casa grande, serviva spazio per i tanti libri e quadri di suo padre, e uscendo assonnato dalla camera da letto, in fondo al corridoio vide suo fratello già vestito, strano pensò, anche a lui piace dormire fino a tardi la domenica, cosa starà facendo, stava seduto nella piccola anticamera tra il corridoio e la cucina e sfogliava in fretta l’elenco telefonico, gli arrivò accanto, chiese «Cos’è successo?» e lui, senza alzare la testa, rispose «È morto il nonno», il che gli sembrò sempre una risposta non proprio giusta, a quel “è morto il nonno” ci pensò si può dire tutta la vita, c’era forse un errore, almeno un’inesattezza, non in chi la pronunciò, non la frase in sé era sbagliata ma rivista a distanza di trent’anni, poteva darsi che la frase falsasse la prospettiva, nel senso che troncava la vita, mentre quella, bene o male continuava a esistere.
Non gli andava bene quel è morto il nonno, meglio il nonno è morto, non è morto il nonno, come se la morte venisse prima, tra le due frasi, la differenza era abissale, è morto il nonno era come dire, un filo si è troncato, e amen, mentre il nonno è morto, indicava che era lui, l’uomo per primo, che era entrato nella morte, prima veniva chi andava via, prima la persona, poi semmai la morte, che è solo una conseguenza, non era solo una questione di precedenze, era che dopo, c’era una morte, che non era morte ma vita dentro un’altra vita, una che, se non era proprio l’aldilà, di sicuro era una ancora qui vicina, rimaneva qui con i ricordi, non era andata via. Il nonno, non era morto, era nella morte, era un morente e andando così lontano, quanto più vicino di prima iniziava a essere, e parlare di morte, non era esatto, la morte era un altro tipo di vita, una un po’ diversa, però guai se non ci fossero i morti.
Da allora e fino a lunedì, sempre che non fosse stato martedì, non aveva più altre immagini di quei tre giorni, le figure e le parole si sgretolavano come una creta polverosa nella testa. Il lunedì, suo nonno morì, era già morto nella notte tra sabato e domenica, anzi, la sera di sabato, ma la morte lui non la vide sabato, la vide davvero lunedì. Di quel lunedì, aveva tre immagini.
La prima, entrando nella casa di campagna del nonno per prendere parte al funerale, nell’ingresso grande dove lo aveva salutato tante volte, di fianco al salone bello in cui la nonna non lo lasciava quasi mai entrare per paura che sporcasse il pavimento con le scarpe piene della terra del giardino, nel salone dove aveva visto posati sul tavolo i due grandi libri dalla copertina verde e i caratteri cirillici in oro, pieni di stampe a colori di Mosca e di San Pietroburgo, e in una si vedeva la prospettiva Nevskij e la Neva ghiacciata, ma adesso non c’era quella neve, c’era la bara, già chiusa. La avevano sospesa a un cavalletto molto alto, due lunghi ceri ai lati, e non riuscendo a reggere quella vista, per un attimo guardò, ma subito dovette abbassare lo sguardo. Guardò il pavimento. Nell’ingresso grande, il pavimento era a mattonelle rossicce, piccole. In mezzo, una passatoia di moquette grigia, fermata da listelli di ottone. Non potendo vedere il nonno i colori, il pavimento, erano un segno di lui. Il grigio della passatoia era la pelle fredda, il rosso il corpo, il cuore soprattutto, che non pareva morto. Il listello d’ottone era l’anello del matrimonio, perché in cinquant’anni insieme non si poteva dire che il nonno non avesse amato la nonna.
La seconda, all’uscita dalla chiesa dopo la funzione religiosa, un pomeriggio uggioso di febbraio, il piccolo gruppo di persone, appena fuori dalla chiesetta di campagna di un paese della Brianza, di fianco all’oratorio e al campo da calcio che invece era grande, aveva l’erba vera, non era uno sterrato polveroso come quelli dove giocava in città, e confinava da un lato con una strada che si perdeva nel verde, dall’altro con il cimitero del paese, e tutto intorno, alberi altissimi, sottili, che mentre si giocava tremavano al vento e durante la partita si distraeva a guardarli, e appena fuori della chiesa si accorsero che intanto era iniziato a piovere, e la nonna, che per la prima volta in vita sua non vedeva ironica, compassata come sempre, ma triste come non mai, disse sottovoce, ma con forza: «Anche la pioggia!».
Non sapeva come confortarla. La nonna aveva ragione, anche lui odiava la pioggia, che voleva dire non poter giocare a calcio, andare in giro per la campagna in bicicletta, camminare nel bosco dei castagni dietro casa, la pioggia era senz’altro un gran male. Sua madre la sentì, di solito litigavano sempre ma in quel momento lasciò perdere, e rispose «Anche la pioggia vuole salutare il nonno».
La terza gli era un poco spaventosa. Arrivarono al cimitero, venne il momento in cui gli addetti dovevano calare la bara. Come poteva permetterlo, suo nonno lì? Perché non in alto, in cima a una collina, così che la mano, nel giorno delle visite, potesse scorrere lungo il cofano? Non c’era niente da fare; andava calata.
La pioggia era aumentata d’intensità, era diventata quasi un diluvio e non era una manovra facile. Il mucchio di terra scavato a fianco della tomba era scivoloso, e mentre il gruppo di persone formava un cerchio di vestiti grigi e ombrelli neri attorno alla terra bagnata dalla pioggia, si misero a calare in tre o in quattro. Usarono delle grosse funi bianche. Non riusciva a dimenticare il bianco delle funi che girava attorno al marrone scuro della bara. Gridò «No, nonno, no! –» ma non riuscì a dire altro.
Alle sue spalle, sentì una voce maschile che sussurrava «Non dovevamo portarlo».
*
Una perdita, che è insieme più perdite, e continuative e istantanee perdite, produce l’unico evento al mondo davvero irripetibile, e pertanto il solo memorabile. Se questo privilegio singolare le consente di incrudelire su di noi giorno per giorno, al punto di svaporare anche dal dominio etereo dell’assenza, l’immaginazione, il cui concetto si distingue a fatica da quello della solitudine, ama conferirle, proprio in grazia dell’irripetibilità che la adorna, la fragile e casta illusione dell’eterno.
*
Con l’odore e la vista degli aghi di pino, dal bosco veniva incontro un unico filo d’erba mutevole nelle varie stagioni, e lo accompagnavano il fieno bagnato e il ronzio delle rare automobili in lontananza che, tra le montagne, si confondeva col soffio del vento. Insieme ai fili d’erba, dal bosco venivano incontro anche ciuffi sparsi qua e là ai margini della strada, emersi a fatica dalle crepe nell’asfalto e scossi di continuo dalla brezza.
In autunno fili e ciuffi ingiallivano e l’anno dopo, tornando a vederli quando erano già ricresciuti da vari mesi, non si sapeva più se quelli rinverditi fossero ancora gli stessi dell’anno passato. In inverno i fili d’erba se ne stavano piegati contro la terra dura, nei giorni più freddi non li si poteva neanche toccare, erano separati da una lastra di ghiaccio sottile, trasparente come vetro e sotto la quale, alla pressione del piede, nelle ore più calde si vedeva muoversi qualche goccia d’acqua.
Nelle giornate ventose dell’estate, le nuvole sfilavano in corteo e i prati dovevano accontentarsi di un sole pezzato, ombra e sole li tingevano di chiaroscuri che si davano il cambio senza fine, in una alternanza incerta, continua.
Verso fine agosto, sui fili d’erba ormai vecchi quanto l’estate risaltavano le ammaccature, un buco dovuto al morso di un insetto, un colpo di grandine capitato magari durante lo stesso temporale che notti prima gli aveva messo paura, la punta del filo già ingiallita. La sensazione di luminosità dell’estate, intatta fino a metà agosto, cedeva all’arrivo della prima aria fredda.
Sopra ogni cosa restava il passare continuo di nuvole bianche, lunghe, sfilacciate, mai stanche di fuggire via.
*
Arrivò l’estate, e gli ultimi giorni di agosto li stava trascorrendo come al solito nella casa di montagna. Gli amici con cui aveva passato le vacanze erano ormai tutti rientrati in città. Restava solo con gli incipienti colori dell’autunno e l’affastellarsi di pensieri malinconici che gli avevano tolto il desiderio delle escursioni in montagna. Girava per la casa senza un preciso scopo, si limitava a percorrere brevi tragitti su prati deserti e poco distanti, in compagnia del cane barboncino che sua madre possedeva allora. Un giorno dopo l’altro rinviava il rientro. Lo tratteneva dal tornare la sgradevolezza della sensazione che a aspettarlo, al ritorno, ci fosse un vuoto senza causa, e senza rimedio.
A quasi diciannove anni non poteva più continuare a fingere di ignorare quell’angoscia, che ora si ripresentava di nuovo e con forza ingigantita. Avrebbe potuto confidare quel malessere a qualcuno, ma ci rinunciò. Era difficile farsi aiutare, anche solo accennare a qualcosa che si presentava, a lui per primo, in termini così vaghi, incerti.
In quei giorni di fine agosto usciva poco, rimaneva in camera da letto a leggere con la luce del comodino accesa. Gli era sempre piaciuto leggere così, con delle luci potenti che illuminavano la pagina in modo da imprimere negli occhi ogni dettaglio. Le letture procedevano a ritmi serrati, non interrotte dagli obblighi di quelle scolastiche, ma avevano perduto il solito potere calmante, pareva anzi che gli aumentassero l’irritazione. Verso metà pomeriggio gli capitava di buttare nervosamente a terra il libro, prendere il guinzaglio, chiamare il barboncino e andare a fare un giro insieme attorno a casa. Uno dei primi giorni di settembre, uscì per una di queste camminate spiraliformi.
Era una bella giornata di sole. Risalì per due o trecento metri il pendio dietro casa e andò a sedersi tra l’erba tagliata bassa e punteggiata di fiori già quasi autunnali, di un amplissimo, splendido prato nelle vicinanze. Da ogni parte, la valle a forma di aquilone permetteva alla vista di spaziare senza ostacoli lungo un orizzonte di una quindicina di chilometri.
Amava sedersi in quel prato e guardare l’orizzonte interrotto da una catena di monti, non opprimenti come in certe valli anguste, ma disposti in un cerchio armonioso; e la loro altezza accresceva la sensazione di libero respiro offerta dal luogo.
Le campane del paese, d’estate, suonavano spesso. Se succedeva mentre era su quel prato, gli davano la sensazione che il suono lo potesse vedere oltre che udire. Soprattutto nei momenti dell’affievolimento, l’onda acustica si allargava dal punto più basso nel centro della valle, dove sorgeva il campanile, in ogni direzione e verso l’alto, come una goccia raggiunge i margini di uno stagno e l’increspatura dell’acqua si riverbera, per quanto leggermente, fin sulle rive verdeggianti.
Insensibilmente, come una voce stanca di ripetere un invito, il suono si smorzava; e nel perdersi si confondeva col fruscìo del vento, i passaggi di qualche automobile in lontananza, l’ondeggiare dei larici e degli abeti alle sue spalle, che sentiva vicini, perché se saliva di altri due o trecento metri, il sentiero andava a infilarsi nel fitto di un bosco sconfinato.
Sul prato, il barboncino gli sedeva accanto non per scelta ma per la tarda età, che rendeva faticoso anche il solo reggersi a lungo sulle zampe. Quando si sentì saziato di quella vista, si alzò per tornare a casa e con gesto abituale guardò in alto e verso occidente, da dove in genere arrivano le nuvole, anche se quel giorno, era sicuro che il tempo fosse bello.
>Uscita dal nulla e muovendo rapida verso di lui una nuvola cinerea, sottile come una lama enorme, larga quanto la metà del cielo e di un grigio polveroso, che il grigiore e la sottigliezza facevano assomigliare alla saracinesca di un vecchio negozio di città che resta sempre abbassata per anni, e adesso, da un momento all’altro, è ora di abbassare anche qui il cielo, veniva avanti simile a un sipario di ferro arrugginito dal gelo, dalla pioggia e dall’incuria, tagliando la valle di traverso.
Nel contrasto tra il grigio e il resto del cielo ancora azzurro, le ombre cadevano sui rilievi a velocità inusitata e spazzavano ogni ostacolo. Eppure non c’era vento sul prato; la nuvola avanzava muta. Doveva avere avuto origine non nella valle ma in una zona remota del cielo a lui sconosciuta, e non era l’inizio di un temporale o di un periodo di tempo meno bello ma l’avviso di un mutamento, che con un annuncio di tale perentorietà, lasciava supporre l’incombenza di un diluvio.
Prima di sera cominciò a piovere. Continuò tutta la notte e il giorno dopo, e per molti giorni e notti successive – non si rivide più il sole. Al quarto o quinto giorno di pioggia ininterrotta, decise di tornare in città.
*
Nella casa di montagna,
nel buio della camera da letto,
con l’aria fresca di luglio
entrava anche l’odore
dell’erba tagliata.
Poco prima di chiudere gli occhi,
sottili strisce di luce
filtravano dalle tapparelle
di legno scuro,
lasciate socchiuse da mia madre
per darmi in tutela al chiarore
di una fila di lampioni.
Al mattino,
un’angoscia senza nome
mi riprendeva
mentre vagavo tra i prati,
vicino ai rami caduti
per il temporale di traverso
a un formicaio, le bacche
dai nomi sconosciuti,
le sterpaglie a fianco del ruscello,
temendo di cadere nell’acqua gelida
o di calpestare qualche vipera.
Nell’imminenza
di tornare in città
i richiami dei corvi,
a fine agosto, impregnavano
le ghiaie delle cime più lontane.
Nella radura dietro casa,
tra i sassi e le radici,
fissavo una volta ancora
lo sguardo sulle rughe delle rocce,
i boschi, l’aria,
il calmo passo delle nuvole.
*
In settembre Carlotta, il barboncino di sua madre, si ammalò sempre più gravemente, tanto che divenne inevitabile decidere la sua soppressione ricorrendo a un’iniezione del veterinario. Ormai non si muoveva più da un angolo dell’anticamera, non era nemmeno possibile riportarla alla cuccia; già il trasporto per un tragitto così breve era divenuto problematico. Le si fece una cuccia provvisoria mettendo sul pavimento, per non lasciarla a contatto col marmo freddo dell’anticamera, dei vecchi copriletti. Il dorso tante volte accarezzato adesso era coperto di gialli rigonfiamenti tumorali; aveva smesso di mangiare, beveva solo acqua non dalla ciotola, ma da una tazza che le si porgeva, e anche questo a fatica. Se la si accarezzava, Carlotta provava a tirar fuori la lingua, ma era così debole che dalla bocca usciva solo, per così dire, un accenno di lingua.
Il veterinario confermò purtroppo le loro impressioni, e aggiunse che di questa agonia il cane soffriva parecchio. Gli si poteva dare una settimana, o al massimo quindici giorni di vita. In quegli stessi giorni sua madre si trovava fuori città, e si dovette approfittare della sua assenza nel timore che a una eutanasia non avrebbe acconsentito; non c’era altro da fare. Mezza famiglia accompagnò il cane fino all’ambulatorio del veterinario. Questi lo fece sedere sull’alto tavolo di metallo che altre volte era servito alle visite, e preparò l’iniezione letale. Più per ritardare la separazione che per speranza di confortarla, mentre il veterinario procedeva all’iniezione teneva Carlotta tra le braccia.
Aveva sempre immaginato che la morte fosse simile a una caduta a piombo nella gravità inerte del corpo. Ma quando il veterinario finì di spingere lo stantuffo della siringa, tenendo premute le mani e gli avambracci sul cane sentì, mentre la siringa non era stata ancora estratta dalla pelle, un irrigidimento dovuto forse a paura o a una tensione muscolare; e un fremito, come il vacillare di un vaso di terracotta appena prima di andare in frantumi. Non sentì pesantezza, ma un alleggerirsi del corpo. Nell’abbandonarsi, il corpo del cane pareva privo di peso – non finito, sospeso e in un certo senso, né vivo né morto.
Un foglio di carta va a posarsi a terra lentamente, non cade subito. Da quando sfugge di mano a quando tocca terra, passano alcuni istanti.
*
Tra la fine dell’autunno e l’inizio dell’inverno decise di andare da uno psicologo. Aveva lo studio in una zona della città lontana da quella in cui abitava lui, e per non tardare agli appuntamenti, usciva di casa con un anticipo molto maggiore del necessario. La seduta iniziava alle 16 e trenta, usciva di casa non oltre le 15 e trenta e arrivava attorno alle 16 e dieci, con un anticipo di venti se non venticinque minuti, temendo che sembrasse un segno di discutibile apprensività. Lo psicologo lo faceva accomodare in una stanzetta subito a sinistra di una angusta anticamera. La stanzetta fungeva da saletta di attesa e per motivi di discrezione, doveva venire occupata da una sola persona per volta. Questo particolare, insieme alla completa assenza di finestre, conferiva al locale una certa tetraggine. In compagnia di alcuni rotocalchi posati su un tavolino basso, come dai parrucchieri o dai dentisti, aspettava nella stanzetta fino alle 16 e venticinque. A quell’ora un rumore di passi e un leggero brusio segnalavano la fine della seduta precedente. La venuta del suo turno era sancita dall’apertura della porta imbottita che separava, nel completo isolamento acustico, lo studio dello psicologo dal resto dell’appartamento.
Nel mentre del cambio di paziente, il suo passaggio dalla stanzetta nello studio era simultaneo dall’uscita di colei che l’aveva preceduto. Era una donna, una signora o signorina sui trentacinque anni. Quando, attirato dai rumori, si affacciava sulla soglia della saletta e faceva per passare in corridoio e entrare in studio, la signora o signorina si congedava dallo psicologo con parole sussurrate in tono di voce talmente basso, da lasciare nel dubbio se si trattava di un movimento delle labbra privo di suono, come nei sogni in cui si apre la bocca senza riuscire a parlare, o nei film muti. Quindi la signora o signorina prendeva il soprabito, un impermeabile chiaro appeso all’attaccapanni dell’anticamera, si rivestiva e usciva. L’operazione non era lunga, ma per l’angustia del corridoio le facce sua, dello psicologo e della paziente venivano a trovarsi a distanza alquanto ravvicinata e si incrociavano, ormai avvenuti i muti saluti al dottore, in un silenzio rotto solo dal fruscìo dell’impermeabile sopra le maniche della giacca di lei.
L’espressione della signora, non la poteva dimenticare. Il volto immobile, era ridotto da tre dimensioni a due soltanto; un viso che si sarebbe detto non passibile di molte e variegate espressioni ma con una mimica facciale unica, invariabile. Nel mettersi l’impermeabile, staccava il soprabito dall’attaccapanni, lo indossava e si avviava alla porta d’uscita in fondo al corridoio, anche quello privo di finestre, con un passo che aveva un che di fisso, irrigidito. Più che gesti parevano porzioni di atti preordinati nei quali niente era lasciato all’umore del giorno, all’estro del momento, e tutto era meccanico. Nel vedere questo, quasi pregava che la signora o signorina facesse presto. Avrebbe voluto che facesse il più in fretta possibile a compiere l’operazione, ne accompagnava con lo sguardo i gesti, pensò addirittura di aiutarla a infilarsi il soprabito, se non ci fosse stato il dottore che con la sua corporatura massiccia, si interponeva tra loro come un pesante schermo punitivo. Ma anche se un giorno fosse squillato il telefono, e il dottore li avesse lasciati soli per andare a rispondere, forse non si sarebbe permesso di aiutarla non riuscendo a immaginare quale reazione di ostilità o fastidio avrebbe provocato in lei la sua premura.
Ma il peggio veniva dopo. La signora o signorina doveva percorrere, davanti a lui e al dottore, il lungo corridoio. Sarebbe stato scortese se lui e il dottore fossero entrati in studio prima che la signora fosse uscita, ma accompagnarla fino alla porta d’ingresso, per contro, sarebbe stata un’eccessiva confidenza. A poco a poco si consolidò il compromesso di guardarla andar via restando in piedi vicino all’attaccapanni, finché non si fosse richiusa la porta dietro le spalle. Cercava allora di non tradire curiosità o imbarazzo; a volte si sforzava di guardare dall’altra parte o scambiava qualche parola neutra e generica col dottore, nella speranza di far credere che a lei non faceva caso, ma anche questo tentativo aveva un che di innaturale.
Iniziava allora la camminata lungo il corridoio, per raggiungere la porta d’uscita. Le pareti del corridoio erano rivestite di una tappezzeria a fiori, dei gigli cui facevano da sfondo bande verticali bianche e verdi. La signora passava sopra i gigli, stando così rasente alla parete, che voleva scomparirci dentro. L’andatura era distaccata dal suolo. Quella maniera di muoversi, che non aveva mai visto, faceva venire il dubbio che non fosse lei a camminare; era rimasta ferma, e a muoversi erano le bande verticali della tappezzeria, e i gigli. Non si capiva come facesse a camminare così, distaccata da terra, e insieme compenetrata alle superfici. Forse aveva a che fare con la corporatura magra e fin quasi ossuta della signora o signorina. E se l’avesse potuta seguire oltre la porta, sulle scale del condominio e fino in strada, alla fermata del tram che prendeva due volte alla settimana per andare dal dottore e su per le scale di casa sua, nell’intimità delle sue giornate, chissà se i passi della signora o signorina avrebbero prodotto ancora l’effetto di un movimento uniforme, senza scosse come quello di una bambola che scorre su rotelle di metallo, o se c’era qualcos’altro in lei, ma che ignorava.
Finite le sedute, lo psicologo gli disse: «Lei è una persona che se un’automobile sta per investirla, aspetta che le venga addosso; ed è uno che a quarant’anni, al primo raffreddore farà testamento».
Sentì una grande curiosità di avere quarant’anni, e di sapere come fare ad attendere quel giorno.