Dell’intervista e della recensione. Tra le pagine e il mondo
Tastare il terreno di una tale raccolta[1] è come bere un bicchiere vuoto: il vino era buono e c’è chi vuole mettermi alla prova. Allora mi affido all’intercessione di San Borges o percorro la strada per Pasolo e depisto: il viaggio nella notte si fa più interessante, come quello dell’alba, in un pullman (Noris Cocci che fotografa la copertina). Non sono in auto ma in una stanza delle ore piccole, ho mangiato forse più del dovuto e porto gli occhiali sui fogli, fuori continua il traffico e tutto questo non è affatto un problema, anzi.
Intraprendo col guardare ben bene il vetro… scruto attraverso la doppia barriera, in apparenza trasparente, quello che la realtà può rivelare… perché l’itinerario per arrivare a un’autrice o a un autore ha varie diramazioni (perdersi è sicuramente una delle prerogative, per poi letteralmente ritrovarsi), tra questi l’intervista (con la fortuna di un contatto) o la recensione (se qualcuno ti contatta, altrimenti di mea sponte), come succede, in entrambi i casi, all’autore.
Da una via, a metà tra colloquio e inchiesta, l’etimologia indica una visione reciproca, un’idea di collegamento, un punto di contatto, che non vuol esprimere solo confronto ma altresì punti di vista differenti. In parte il sentiero si scopre da solo e il resto lo fa la propria curiosità.
La strada critica[2] passa parallela, transita nei punti salienti di un tragitto che compie l’opera con le sue tracce letterarie nel mondo dell’editoria, con la speranza che sia letta da molti. Importante che qualcun altro ne ricavi qualcosa.
Con le conversazioni gezzistiche ricorro al venerato Walter Benjamin e lavoro di citazioni per trarne fuori magari un trattato di poetica (secondo l’ordine degli intervistati: Giovanni Raboni, Edoardo Sanguineti, Aldo Nove, Umberto Piersanti, Milo De Angelis, John Ahbery e Seamus Heaney):
“… un mondo possibile per cominciare a fare i poeti: copiare i poeti della propria lingua… vedo un futuro della poesia. E vedo anche una funzione per la poesia, perché più il mondo è confuso e banale più la poesia può servire, perché ci dà una seconda vista”; “nel mondo più arcaico quello che poi diventerà la poesia è un insieme di formule rituali e magiche, non è nemmeno parola, è un insieme di ritmo e parole”. “La poesia è un bene comune. Non deve rimanere in mano a una casta… Questi vogliono rimanere in quindici e godono di questo, ed è esattamente l’opposto di quello che io, ma non solo io, voglio”. “Per essere un poeta bisogna avere una Weltanschauung e un’Erlebnis. La Weltanschauung è la visione del mondo, che emerge anche se non si parla della società. L’Erlebnis è un sentimento delle cose. La lucciola o la gallinella di Leopardi, per esempio”. “Ciascuno di noi non sa chi è, prima di scrivere. Ognuno si costruisce come contraccolpo delle parole sul foglio, che gli fanno da specchio, come frammenti di un mosaico che costituiscono, una volta depositati sul bianco della pagina, la sua provvisoria identità”. “Preferisco pensare di essere stato sempre affezionato ai lettori, persino nei giorni in cui non avevo. Per quale altro motivo si dovrebbe scrivere?”. “Io non ho mai sentito la necessità di schierarmi violentemente, perché se uno fa sì che l’altra parte lo veda subito come propagandista, provoca la perdita immediata della capacità di dialogo tra due solitudini. La poesia ha bisogno di uno spirito solitario, perché una solitudine possa essere accolta da un’altra solitudine”.
Dal chilometro 133 si susseguono i luoghi visitati dall’autore: in alcuni la vista è interessante, le osterie invitanti e per chi aspira una tabaccheria sovente aperta; in altri posti si arriva la sera (apprezzabile avere con sé o scovare da qualche parte un foglio e una penna) che la mattina presto c’è il check out.
Penso, quando ogni tappa si conclude (come faceva Emily Dickinson a ogni lettera spedita[3]), ad almeno una poesia che vorrei leggere, se non altro per questo genere di raccolta, come fatto prevedibilmente con Bartolo Cattafi[4] o per certi versi con Mark Strand, perlomeno per invogliare ancor più la lettura. D’altronde la poesia stessa vuol sempre conversare se non è la prima cosa che mi viene in mente la mattina.
Bisogna essere un fantastico giocoliere delle parole degl’altri. Tuttavia ora devo partire per biblioteche e lascio più tardi finire di scrivere.
Ancora sulla recensione. Accompagna, suggerisce, promuove (se non è una marchetta) la lettura di una specifica pubblicazione. Ovvio. Ma a volte (o spesso) si è costretti a un numero limitato di battute[5], a scrivere giusto, bene si spera, in poco spazio[6]. Se l’autore assaggiato è stimato[7] il cimento è arduo, al limite della praticabilità. D’altronde la costrizione si cuce bene addosso quando ci si mette i panni dell’estensore e di nuovo o ex-novo si va a “riscrivere” un siffatto lavoro letterario. La cattività della pagina, il perimetro del trafiletto, il mascara dell’occhiello in sostanza anche la forma ci mette in gioco, sia negli elogi che nei malintesi. Punto.
Dell’intervista e della recensione. Tra le pagine e il mondo.
Una volta che le parole ci attraversano lente lente o leste leste non si può fare a meno di dimenticarle. Come una poesia di Charles Simic:
Parlavano di guerra
davanti alla tavola ancora apparecchiata.
Sul lato opposto della via la prima finestra
della sera era già accesa.
Lui si sedette, curvo, calmo,
mentre la vecchia paura lo assaliva.
Imbruniva. Lei si alzò per portare in cucina
il piatto sgradevolmente bianco.
Fuori, nei campi nel bosco,
un uccello parlava per proverbi,
un Papa usciva incontro ad Attila,
il fosso era in attesa del plotone[8].
E si va allora alla continua ricerca di qualcuno o qualcuna con cui conviene colloquiare o una lettura da cui vale la pena un verso estrarre.
Roberto Marconi
[1] Tra le pagine e il mondo. Dieci anni di incontri, dialoghi, letture, Italic Pequod, Ancona 2015 di Massimo Gezzi.
Il titolo: avventuroso nel proposito e tipograficamente in simbiosi con il nome e cognome dell’autore. A dispetto del sottotitolo, il quale nasconde più di due lustri letterari confezionati.
[2] Precursore l’elzeviro.
[3] Me ne devo proprio ricordare.
[4] “Come le cose che vengono dal nulla / come la neve i passeri la pioggia / il polline emerso / dal mare spalancato della rosa” in B. Cattafi, Simùn, a cura di S. Ramat, Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova 2004.
[5] Se non si è comici.
[6] Si veda ad esempio la quarta di copertina.
[7] Il Massimo, giustamente, non nasconde le sue preferenze quando di qualche autore scrive più recensioni, ma al massimo non va più di tre articoli. Impegnativo è il commento alle “Poesie” di Milo De Angelis.
[8] The Place da Return to a Place Lit by a Glass of Milk: poems, G. Braziller, New York 1974 in http://www.criticaletteraria.org/2014/09/Charles-Simic-Adelphi.html.