Il Nobel a Bob Dylan

di Rossella Frollà

Soffiava nel vento la scelta del nobel a Bob Dylan.

Bob Dylan e Allen Ginsberg (Elsa Dorfman, Wikipedia, CC BY-SA 3.0)

Non appena lo Spirito si stabilisce nella vita di un essere, immediatamente l’immaginazione e il cuore popolare lo riconoscono e simpatizzano con l’essere che lo accoglie. Il menestrello spettinato con l’armonica in bocca racconta le storie degli uomini alla pari della grande scrittura. Non vi sono dissimulazioni nel semplice intrecciarsi delle superfici. Il materiale della vita nel suo mimetismo più sottile si sente al riparo nel suono di note e parole che vanno oltre chi le ama e le protegge. L’anima  si concede al mondo tenera e imprudente, graffiata, amata  e ferita. La dignitosa, autentica  cultura popolare cui Dylan si abbandona  è quella qualità originaria della poesia che non teme e non può temere l’abbraccio con la musica  in un  tutt’uno che  si eleva a valore più alto, si fa segno universale, forma d’arte, alla pari di quella letteraria. In molti (Francesco De Gregori, Guccini, Mogol, …) hanno felicemente accolto questo inusuale, inusitato riconoscimento alla canzone che a pieno titolo entra nella Letteratura. E Dylan con le sue scelte sorprendenti, con cuore e genialità ha permeato la storia del secondo Novecento fino ad oggi. Quando l’anima e lo Spirito possiedono le stesse memorie, allora , i ricordi e le conoscenze nutrono, acquistano grande valore e le storie si fanno fuoco alto, bello dei suoi tanti volti. Così Dylan  con la sua voce, con le sue note e le sue parole ci mostra il nostro vero volto, quella rete di qualità che ci portiamo dentro dall’infanzia, il chiarore originario fortemente percepibile da chiunque. In questo Dylan  è universale. Si avverte nei suoi versi l’identità delle ombre intime, le freddezze e le storie dei silenzi. I suoni nascondono lo stesso mistero di tutti, i dubbi, e il nascondiglio da cui provengono è il sé che risale la coscienza e si concede al mondo schietto e genuino, per un magico destino che lo vuole sognatore errante, avversario di ogni indifferenza. Quelle spine spezzate in modo distratto e sgarbato, innocenti e poi mature con più dolore hanno raccontato il mondo.

The times they are a-changin (1964)  obbedisce alla segreta potenza della poesia, alla sua pressione. La forma è l’abitazione stessa della vita. E così l’anima cede la sua parola. Come non pone ostacolo la dolce chiusura di un bottone a una leggera pressione delle dita, così, accumulare la conoscenza, propria degli eruditi, è «filosofia dell’avere» non del nutrirsi ovunque ci sia un’intimità con le cose, falciando l’asfalto e  immaginando l’erba.

Per Dylan non si può proporre il dossier di un’anima chiusa né una vita sempre ben oliata ma ciò che sfugge dai suoi bordi ammaccati sono vere e proprie scintille del cielo.

La sua musica ha viaggiato a lungo: dal country al blues, al rock and roll, al rockabilly, al jazz, al swing, allo spiritual e sempre nel potente abbandono religioso del sé.

A questo poeta dal suono imprudente che allarma e difende, visionario e rapace delle sotterrane angosce comuni  va l’abilità di estrarre da dentro la pietra. Di essere riconosciuto tra gli altri come il grande, il solitario che si protegge con semplici immagini.

Per metà turco e per metà ebreo lituano, figlio di emigrati negli Stati Uniti, nel 1958 compra una Gibson acustica e inizia così la sua canzone.

Esce nel 1965  Like a Rolling Stone, ai primi posti nelle classifiche americana e inglese.

Nel 1966 con Blond on Blond  (Columbia Records) si conclude la trilogia della sua svolta elettrica. Vi sono due tra le canzoni più belle: Just like a woman e Visione of Johanna.

Dylan d’ora in poi miniaturizza l’universo e lascia parlare il sé che dall’alto segue ogni sua traccia, ogni sua grandezza che muta fin sulla soglia. E lui è lì, col rischio di non vedere più lo spazio ed è egli stesso l’immagine. Ogni miniatura guardata di lontano ci eleva così in alto tanto quanto ella sale. E dopo averla fotografata Dylan diventa l’essere della sua immagine. Ogni suo verso ci appartiene e ci estende. Per quanto possa essere improbabile è spesso l’immensità interiore a conferire l’autentico significato al mondo che appare ai nostri occhi. Dylan ne è lo slancio, la «coscienza d’ingrandimento».

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