Valeria Rossella
La città di Kitez
Nino Aragno Editore, Torino, 2012
di Rossella Frollà
«Se il ghiaccio non è che acqua in forma muta», nel disgelo tornerà a parlare. Lo specchio dell’immagine capovolta della città di Kitez si fa liquido e torna riflesso il «giglio d’acqua» e tutto è quella nube che nasconde il sole, un nuovo alfabeto che si espande e si dirada con responsabilità e memoria. La poesia di Valeria Rossella è un vasellame prezioso che restituisce il mito «con cui il tempo scrive le sue lettere». E’ il progetto di un viaggio in cui tutta l’attenzione converge sul come si guarda il mondo e sul come si esiste nel mondo. E allora lo si guarda anche attraverso una realtà capovolta che comunque riflette le stesse storie e le stesse figure, quel che cambia è solo la nostra posizione rispetto ad esse. La leggenda della città di Kitez ci dà la percezione chiara e la visione del nostro esserci in segreto nel mondo, quasi a sfiorarlo tutti i giorni di corsa. Kitez è la verità riflessa di ciò che il mondo è stato prima di allora e noi nel mondo prima di allora. Si fa sogno e parola la visione di ciò che in segreto è sempre in moto e in continua trasformazione. Situata sulle rive del lago Svetlojar, la piccola città per sfuggire all’invasione dei tartari si era resa invisibile e appariva nell’acqua con l’immagine capovolta. Quest’antica leggenda russa dona un tocco di magia all’opera che rivela la sua meta: una veglia nel tempo lucida e frastagliata, composta e limpida, esatta ed essenziale del modo in cui sperimentiamo la vita e noi stessi.
Il tono è lirico-narrativo, dialogico, evocativo, civile, a volte memoriale, in comunione con una disciplina morale che fa posto al sé e alle cose in un continuum conoscersi, scegliersi, superarsi. Il paradigma è il lasciarsi investire dall’altro da noi. Il gioco della parola sta tutto nell’attenzione verso ciò che è fuori e storia e piante e fiori e idee che combattono altre idee per una diversa visione del mondo e mai troppo diretta è la parola verso l’io se non quando libera nelle rêveries la massima densità di essere ed esistere. Nelle intermittenze pragmatiche l’io poetico coniuga la ratio. Il linguaggio è elegante curato e raffinato ma mai privo di epifanie autentiche che superano i dettami della forma e delle convenienze stilistiche. La parola ruba «scaglie d’oro», preziosi monili ai cieli dei pittori, (Magritte, Velasquez, Vincent) e le profondità della coscienza si fanno aperte come «le melagrane si aprono sui piatti». Soffiano intuizioni e drappi di memoria si accendono nei luoghi secretati «che l’acqua alta del tempo/non potrà più annegare». Uccelli, tarli, poeti, nuvole e pietre sono la presa sul mondo e gli innumerevoli mondi del quotidiano e della storia che migra in luoghi di senso talvolta ripetitivi e dissonanti.
La vita scorre in avanti e con essa anche «lo sgangherato andarsene nel nulla delle cose» sulla passerella della «Moda» e della «Morte» nell’abbraccio borghese della sabbia sui corpi. L’atmosfera misteriosa e inquietante di una natura morta ritrae gli «strumenti afoni» di Baschenis per una dichiarazione che vuole essere persuasiva della bellezza che si può leggere dolorosa e caduca tra le righe e tra le note del mondo. Impigliati gli occhi, la natura, le dita, la sintassi, i «pesciolini d’argento tra le pagine». «Un violino e un compasso» cercano lo «spacciatore d’ombre» che traghetti l’ombra del millennio col suo «guscio vuoto» là dove armonia e bellezza sono un ricordo certo e ogni suono abita un luogo. Ciò che brucia come una musica votiva è la vita che si porta come un «cumulo di pagliuzze infinite» e anche se «[…] il mare/nella sua lingua disarticolata dice/la speranza la devi sopportare» la domanda del poeta sulla legge che ci governa trova risposta nelle rêveries che non si convertono in materia e la sola forma si rivela inadatta a contenere la pienezza del mondo. «Crono di tutte la scimmia più tremenda. Il cuore/ha dell’oceano gelido e salato […] » è la natura cannibale e prigioniera della vita e la vita è «Prigioniera di una luce che fu, di quel blu, di quella gradazione/turbata del cielo su Moneglia, […]» Il tempo, dunque, deraglia le nostre vite è «il Cavallo grande, niveo, le froge nere e i duri/diaspri degli occhi, che scalpita nella sua corsa senza meta,/immane, deragliante, e senza posa/ci soffia che siamo la sua biada».
Tuttavia in questo romantico viaggio della parola nell’arte, nella città incantata e nei suoni di un occidente che sembrano non trovare «cittadinanza», resta chiara l’immagine del tempo che «ci scuote e non si vede», cancella le nostre orme ma nell’aria, nel pulviscolo della sabbia resta la nostra ferita e si apre al chiaro in attesa di essere guarita. Ogni male da Oriente a Occidente va curato perché proiettati inizialmente verso la nostra apoteosi ora siamo molli, euforbie creature, possiamo solo guarire: «[…] Prendi la frusta/e scuoiaci, perché ciò che ferisce guarirà». Una bellezza classica dei versi accompagna la bellezza caduca delle cose e dei luoghi. Appare la bellezza rovinosa di Roma città che ha ospitato a lungo il poeta. La Roma-vascello che apre Geografie è troppo ricca e diafana (come l’Europa) per resistere alle febbri che la insidiano e la confondono: «Roma nave naufragata/nel cimitero oceanico del tempo/oscilli con la carena spolpata/nel fluire di corpi che trasformi/in calce e travertino o eterno sepolcreto e culla/le anime imprigionate nelle lettere spariscono/scrostandosi dai frontoni dei templi nottiluche sui flutti». Cos’è che cambia dunque? Nulla nella compattezza di un automatismo della Storia d’Occidente destinato a fallire: «[…] Così l’Europa/si dimentica dei suoi corpi bruciati,/polline lucciolante e smarrito/che intasa il respiro della Storia».
Ma l’attenzione inconsapevole dell’io va a Torino, è il Ritorno a casa: «A Roma eri una vecchia spina». E anche se si sfalda l’idea di una strada battuta il poeta riascolta il «Dora, ninfa morticina», consapevole che ogni luogo si rovescia nell’altro in un tutt’uno. «l’odore di deserto» invade le nostre frontiere e nulla si può più, così come ciò che accade riflesso non c’è più. Uno sguardo all’antica Grecia, all’imaret di Kavala e al grande poeta Costantino Kavafis appare come l’ultimo saluto a un antico stato di cose: «Tornerà con quegli occhi dolci, con le mani ladre?/A queste porte Scee, per l’ultimo saluto». Nell’esercizio della parola a prendere dalle profondità l’essenza che è già lì e a intercettare l’intuizione che la scova, l’io è stretto da una sorta di reincantamento del mondo in un processo di espansione in cui ogni allegoria si riprende la vita e tutto torna: «il popolo delle nubi», «il popolo di fiati, picei, senza scampo, che solo/trovò rifugio nella pietra di guardia alle tombe Medicee,/dove il dolore non duole, e non esiste/entropia nel moto». Quel che conta è che la parola ancora una volta serve a destabilizzare quel certo «disincanto a oltranza» che ogni giorno di più allarga le nostre ferite.