Dix poètes italiens contemporains

di Umberto Brunetti

Per Le bousquet-la barthe éditions è di recente uscita l’antologia Dix poètes italiens contemporains (pref. di Alessandro Agostinelli), in cui è presentata una selezione di liriche di Umberto Piersanti, Fabio Pusterla, Antonella Anedda, Franco Buffoni, Milo De Angelis, Alessandro Moscè, Tiziano Broggiato, Feliciano Paoli, Francesco Scarabicchi e Gian Mario Villalta. La traduzione francese è a cura di Bernard Vanel, già preceden­temente traduttore di poeti italiani come Roberto Veracini e Maurizio Cucchi, che opta per una resa molto fedele all’originale e attenta alle diverse scelte stilistiche degli autori. I dieci poeti, nati tutti tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, «più che una scuola compongono», come si legge in prefazione, «un mercato, una fiera di proposte individuali di grande efficacia evocativa» (p. 9). L’antologia vuole offrire quindi al lettore francese uno spaccato delle variegate esperienze poetiche di una generazione che si colloca a cavallo tra il secolo trascorso e i primi due decenni del Duemila.

Il poeta apri-fila della silloge è Umberto Piersanti, di cui sono proposte cinque liriche che fotografano la stagione più matura del suo percorso poetico. La cifra distintiva di questi versi è il canto di una perdita, quello della civiltà contadina delle Cesane, avvolta in un’aura leggendaria, perché conosciuta solo attraverso i racconti ascoltati nell’infanzia, come quello dello «sprovinglo», il diavolo cane-nero che saliva sul biroccio del bisnonno Madìo. Il senso di mancanza per quest’universo mitico è riassunto in due versi della lirica Di marzo: «Deserte sono adesso le Cesane / cessano le presenze o vanno altrove» (p. 22). L’incisività della paronomasia che lega i due endecasillabi è parzialmente recuperata nella traduzione francese attraverso l’espediente della rima interna: «Désertes sont à présent les Cesane / les gens n’y viennent plus ou vont ailleurs» (p. 23).

Un sentimento nostalgico nutre anche i versi di un altro poeta marchigiano della raccolta, Alessandro Moscè: la sua poesia si colloca, però, in un’atmosfera tutta cittadina. «Quei viaggi da Ancona / mi scendono in gola, / mi fanno pietà / e mi danno il senso di una fine. / C’è stato uno strappo, / giorno per giorno / quando finiva la domenica. / Fabriano in un esilio / lontano dai nonni, / disperatamente lontano» («Ces voyages depuis Ancône / me restent dans la bouche, / me font pitié / et me donnent l’impression d’une fine. / Ce fut une déchirure / jour après jour, / quand finissait le dimanche. / Fabriano dans un exil / loin des grands-parents, désespérément loin», pp. 124-5). In queste liriche si staglia l’immagine della città nella notte senza luna, nella luce arancio dei lampioni e con «la strada angosciata» dai fanali di un camion. Città còlta nell’assiduità di gelo e pioggia, attraverso le istantanee di alcuni luoghi ricorrenti, i bar, le pizzerie, e con un’attenzione particolare agli oggetti quotidiani come bicchieri e giornali.

Le poesie di Tiziano Broggiato condividono con quelle di Moscè l’ambientazione cittadina, ma se l’orizzonte di quest’ultimo è circoscritto ad Ancona e Fabriano, Broggiato estende a dismisura i confini del proprio, facendo della divagazione geografica (da Alcamo a Praga, passando per Casablanca e la perduta Ninive) il motivo precipuo dei testi qui raccolti. Il poeta assume «lo sguardo del visitatore» che si sente «affiorato / nell’autunnale prospettiva di un quadro» («il s’est échoué / dans la vision automnale d’un tableau», pp. 136-7), e appunta nei suoi “taccuini di viaggio” squarci, fotogrammi, cambi di luce. Proprio «luce» è termine ricorrente, accompagnato nei versi da una multiforme aggettivazione, volta a segnalare, quasi fosse il chiaroscuro nelle mani di un pittore, le sue innumerevoli variazioni: essa è «spessa», «irridente», «contratta», «ambrata», «lattiginosa», ma sempre, comunque, presenza fissa e compagna di ogni peregrinazione.

Hanno misura breve i componimenti di Fabio Pusterla, con versi raggruppati spesso in terzine e con endecasillabi ben torniti, come ad esempio nell’incipit: «Inesistere: non è affatto male. / Si cammina su margini ignorabili» («Ne pas exister: ce n’est vraiment pas mal. / On marche sur des bords que l’on peut ignorer», pp. 48-9). Qui la parola in maniera neo-ermetica cerca una precisione scarna per esprimere «l’inutile, / rutilante fulgore del nulla». Le pietre che gremiscono i suoi versi appaiono il correlativo oggettivo degli umori dell’autore, se osserviamo gli edifici, che di esse si compongono, ivi descritti: «abitazioni crollate», «muri cupi, quasi azzurrati d’orrore». E l’io lirico vorrebbe «Solo / restare, lasciarsi / cadere e farsi pietra / tra le pietre» («Seulement / rester, se laisser / tomber et se faire pierre / parmi les pierres», pp. 58-9).

La coscienza del dolore altrui e dell’indifferenza che lo attornia domina i componimenti di Antonella Anedda: «Così arrivano i delitti: / quando qualcuno sente le grida e poi torna a letto, quando non ha / la forza. / Colpa del corpo che ama il piacere, del conforto che scaccia il dolore» («Ainsi arrivent les délits: / lorsque quelqu’un entend les cris et puis retourne au lit, lorsqu’il n’a pas / la force. / C’est la faute du corps qui aime le plaisir, du confort qui chasse la douleur», pp. 76-7). Nella poesia dal criptico titolo Exilium = 0, che reca in epigrafe un eloquente passo tacitiano, l’autrice affronta il tema scottante dei «tanti morti affogati / a pochi metri da queste coste soleggiate». Ma è soprattutto il finale di 14-18, dedicata al nonno, che ci rimane impressa con l’immagine del sogno in cui soltanto – nella realtà non è concesso – si può «provare a rovesciare il male».

Anche in Franco Buffoni trova spazio la spietatezza degli episodi di cronaca: è il caso della poesia su Marietto, il bimbo di sedici mesi gettato nel Tevere nel 2012 «da suo padre per dispetto / a mamma». Si fa largo però in altre liriche anche una tonalità più leggera, sorretta da una sottile ironia, come nella descrizione dell’ossessione per il fitness al tempo dei selfie e dei social, perfettamente fotografata nella folla di corridori accorsi in Villa Borghese la mattina del 31 dicembre, spinti da una forma di “fede”: «quella di Narciso / riflesso nel laghetto / moltiplicato per mille narcisismi / non del volto, ma del giro-vita-petto» («celle de Narcisse / reflété dans le petit lac / multiplié par mille narcissismes / non du visage, mais du tour de taille et de poitrine», pp. 80-1).

Del poeta lombardo Milo De Angelis sono proposti otto testi dell’ultima raccolta, Incontri e agguati.  Particolare centralità assume qui il “tu”, che in un caso sembra però coincidere con l’autore stesso, perché l’io lirico presta la voce al padre defunto («esco, come vedi, / dalla mia pietra per parlarti ancora», p. 98): il ritmo di questa poesia è sostenuto, grazie a una sintassi ricca di iterazioni ed enjambement, che guidano «la danza delle sillabe». Il “tu” si esteriorizza, invece, nei successivi componimenti, alcuni dei quali ruotano attorno a un fulmineo incontro con un compagno di liceo, infallibile nel greco, ora tra i clochard della stazione. La forza retorica dei versi di De Angelis non è sminuita dalla traduzione francese, che forte della stretta parentela lessicale tra le due lingue, riesce a preservare anche ricercate allitterazioni, come nei seguenti versi: «e noi siamo / il frutto di un contrasto magistrale / che prepara giorno dopo giorno la lettera d’amore» («et nous sommes / le fruit d’un contraste magistral / qui prépare jour après jour la lettre d’amour», pp. 110-1).

Appare piuttosto felice anche la traduzione dei versi di Francesco Scarabicchi, l’autore forse più difficile nella raccolta da rendere in francese, per la sua estrema cura nella rispondenza delle rime e nella metrica. Non ci sembra perdere vigore, infatti, nella resa di Vanel la classica musicalità dell’endecasillabo intrecciato al settenario, ricercata spesso nelle sue liriche, sebbene qui non si opti per una traduzione metrica. È il caso, ad esempio, del testo intitolato Ah, in cui la martellante anafora, tesa a riprodurre la scansione metronomica del tempo, mantiene la sua forza evocativa nella semplice resa letterale: «il tempo solitario d’ogni notte, / il tempo che mi viaggia e non ritorna, / tutto il tempo del tempo che c’è stato / […] il tempo intero che non puoi pensare, / quello che prende solo per lasciare» («le temps solitaire de chaque nuit, / le temps qui m’emporte et qui ne revient pas, / tout le temps du temps qu’il y a eu, / […] le temps entier que tu ne peux penser, / celui qui prend seulement pour abandonner», pp. 182-3).

In direzione contraria alla ricerca di un tono elegiaco, si muovono, invece, Feliciano Paoli e Gian Mario Villalta. La poesia di Paoli evita l’artificio linguistico, facendo della semplicità lo specchio della realtà ordinaria su cui si sofferma. Lo sguardo del poeta insiste su piccoli particolari, come i progetti per la fontana davanti casa, il restauro dell’orologio comunale del paese, o ancora l’immagine della giovane vedova che, fermandosi davanti al manifesto funebre del marito, sembra ammonire la gente: «Non potete / dimenticarvi, non potete far durare / la perdita i pochi giorni che arriva / nuova carta a soffocare l’altra» («vous ne pouvez pas / oublier, vous ne pouvez pas faire durer / le deuil juste le temps d’attendre / qu’un morceau de papier vienne pour étouffer l’autre», pp. 162-3). L’anticlassicismo di Villalta si misura, invece, nella sintassi franta, che procede a scatti, unita a un linguaggio spiccatamente quotidiano, in quella che pare quasi una mimesi del rap: «e tu vai, va’ che da qualche parte / si balla, si fa notte fonda / e alba // che cosa vuoi / che resti solo, io / che solo non sono mai» (p. 192); «Ti aspettano tutti ti aspettano tu / punta i piedi, piano, guarda lontano / giù, tieni i tendini tesi, / non c’è alcuna fretta» («Ils t’attendent tous ils t’attendent, / obstine-toi, doucement, regarde au loin / en bas, tiens les tendons tendus, / il n’y a aucune hâte», pp. 196-7).

 

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