Recensione di Stanze di città e altri viaggi

di Rossella Frollà

Valentina Colonna
Stanze di città e altri viaggi
Nino Aragno Editore

 

Quanti anni ho impiegato per abbandonare
le vite che quotidianamente crescevo.
Quanto tempo speso a diventare altro,
a cercare un ricongiungimento.
Ho dovuto attraversare interminabili confini
per trovare le parole, allargare le braccia a perdere
ciò che amavo, stringere più forte il mondo,
tutto il mare che dentro mi risuonava

 

Un libro che si connette al cuore e alla mente. Vi sono tutti i paesaggi che si possono scorgere nella nostra interiorità. Vi è l’esperienza dell’angoscia e della tristezza divorante, delle attese con le sue dissolvenze, della vulnerabilità che ci espone alle ferite. Ma questo fiume che ci travolge lascia che i sassi a grumi nell’alveo mutino il corso dell’acqua, si fa visibile il significato invisibile della vita. E la speranza ha una sua durata fino al mare, così che ci prepariamo ad essere felici. Il silenzio raccoglie le schegge del mondo e fa riemergere una delicata e fragile, limpida poesia: «Più piccoli sono i fiori che si tengono e osano/colorare le pareti, spiazzare lo sguardo di chi passa/o innamorare il più distratto degli uccelli/quando la pioggia smette.»

L’amore che travolge è «vita senza riduzioni». Dalla vita sgorga un sentire prosciugato e un pensiero che ha il bagliore del cristallo e il Silenzio non è sigillato in una speranza lacerata, frantumata come nelle splendide poesie di Trakl: «Abita il silenzio nelle stanze blu/un lungo pomeriggio» (Sussurrato nel pomeriggio). Il silenzio della poetessa è azzurro come il cielo. È sempre permeato da un mistero di fondo che è esperienza oscura e luminosa. Il contraddittorio esce dall’Unità poetica e comunica tra le altre cose straordinarie lo stupore come occhi che illuminano all’istante altri occhi. La bellezza nascosta e silenziosa apre la partitura con andamento Arioso e il timbro segreto della parola prende «quasi tutto»: gli affetti «i fulmini intermittenti» della vita e i fiori. Ancora una volta si fa vivo il linguaggio senza fine sull’istante che immortala il paesaggio e l’odore di madre: «I paesi bianchi appesi alla collina diradano./La sera sul balcone prima della furia,/della tromba d’aria, l’eccitazione/di mia madre a proteggere i fiori/nelle luci intermittenti dei fulmini./Lei è lì ad agitare, ad aspettare/tutta in fremito la vita.». L’occhio non solo vede ma ascolta il visibile e l’invisibile, la forza materna, quella festa del cielo che ci vuole regalare.

La parola suona a volumi diversi in base al tocco che pizzica la corda acuta e leggera. Arrivano le antiche risonanze esistenziali e sapienziali, quella fluida nota adolescente che sembrava persa e che torna all’incontro della Natura col mondo. Si fa impressionismo, amore del luogo, del tempo e prende forma nell’albero e si può tagliare, fermarsi «a mezza strada,/far entrare la luce alle radici e dalla terra/sino in cielo, alla terra del cielo, allargare/le braccia e il ventre ad accogliere la sete in una/cascata, quasi culla o vita senza riduzioni.». E da queste Stanze della lontananza la pace arriva e cancella il bagliore della vita che eccita e insieme l’angoscia e la disperazione con una esperienza di «contemplazione» che dà luce agli abissi dell’anima: «Con dolore ho scelto la contemplazione/dei fiori a primavera, così forti alla collina, così/resistenti alle sferzate improvvise dalla Sierra.».

Valentina Colonna da brava camminatrice del mondo ha dato alla voce dell’aria, dei fiori, delle macchie, dei frutti, dei luoghi della sua Torino e del Salento, alla voce del treno per l’Europa l’orizzonte di una poetica che dirada e si allarga con il suo linguaggio, con il suo ritmo, con la sua forma verso una fanciullesca antica immagine che buca il tempo: «Queste strade/che mi appartenevano – così mutate – /e io quieta di felicità passeggiarle./Mutato il respiro. Così allargato nella casa/senza pareti, con le reti alle finestre/a sventolare gli odori, i discorsi che s’incontrano/nel cortile al centro del palazzo.». Il movimento sale dalla lontananza verso il presente e con un fare intimo e sensitivo si torna all’immagine lontana, all’aria primigenia delle cose. L’immaginazione dialoga con i suoni e i volti di un tempo perduto che viene richiamato dal presente e questo musicale colloquio pare abbia già il senso del fuggitivo. Evapora quella strana leggerezza che si assapora e scende già la nostalgia in profondità quasi a lenire le ferite e a dissolvere i grumi del mondo. Così il pensiero si raccoglie vicino alla parola e la rêverie si trasforma nelle linee di una nuova conoscenza: «Torino che sai dei passaggi feriali/i segreti serali dei cammini sul Po.».

Le due strutture portanti di questo libro sono la «partenza» e l’«assenza». La partenza è sempre verso un impressionismo cosmico e l’assenza è il «quasi tutto» che indica la presenza dell’«intero». «È uno sparire d’orme», un surreale viaggio nell’aria, «Poi il vento piegando tra gli strati si rilascia». In questo libro ovunque si cammini si incontra una perla. È un libro prezioso e ricco di verità. Tanta la sua naturalezza, tanto il senso religioso, etico, tanto il profumo e la forza di madre che realmente la parola lascia fremere la vita. È secondo me vera e bella poesia.

La felicità cammina per strada
con una bici scrostata e un vestito
azzurro. Si solleva passando
davanti al ber, ai signori in velocità
nella frenata alla svolta della piazza.

Lei se ne va correndo col sobbalzo
degli sguardi che si alzano. Va con l’aria
tra le coste. Il manubrio senza sosta
da solo in tondo nel paese. Si ciba dei muri
bianchi, della luce nei soffitti a cielo aperto
con gli odori, che diffondono di pranzo.

Signore mio, Signore, ogni respiro ancora
mi è solo tutta vita in avanzo.

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