Per eccesso di visione, recensione di Alogenuri d’argento

PER ECCESSO DI VISIONE
sulle poesie di Marina Baldoni

 

Il “tu” nella poesia di Marina Baldoni è il soggetto/oggetto che si lascia attraversare dal tempo della consunzione e del dolore oppure è lo stesso potere dell’amato che a questo tempo condanna. Lirica della testimonianza frammentata – che gli spostamenti grafici attestano in una sorta di smembramento – la poesia non esercita più alcun potere salvifico se non la mera testimonianza dell’esserci senza scampo. Tuttavia è forse l’altro “tu”, quello del dialogo silenzioso dell’anima con se stessa, quello che, senza garantire lo scampo, salvaguarda la possibilità della fuga o della distanza:

mi metto via dal tuo mondo come
si butta il golfino ormai stramato
[…]

e solo un secondo per aver salva

 la vita

Ci sono stanze, trame, crepe, orme, grumi, nodi, tutto un insieme di elementi di cavalcantiana memoria, che appartengono a un lontano “corpo d’amore” e che assumono se non il ruolo di soggetti almeno quello di intensità singolari e assolute, tese infine a produrre non il canto, perché del canto non hanno più totalità e ingenua certezza, ma lacerti di canto e senso, al limite del mutismo, unico “resto” possibile dell’esperienza d’amore. E la poesia è proprio in questo profondo e rigoroso rifiuto della misura distesa e conciliata.

un’ombra sono,

di qualcos’altro qualcosa

che non lascia traccia

Piuttosto è lo scarto che s’impone, lo spostamento in un angolo della pagina, in un gradino sottostante, o a latere della pagina, in una continua attitudine alla fuga dalla totalità e dalla pienezza:

alla fine a contare
sono gli spazi vuoti
le mancanze

Perché della pienezza il presente non può più nutrirsi.
Analogamente anche il meccanismo della visione (che il fare poetico innesca) si rivela iperdeterminato dall’eccesso che dona in quanto tale cecità e verità.

eri  lì
ad un tratto
dove l’onda fa risacca

la tua risata

o forse era un addio

E pare che le apparenze del mondo e della realtà alimentino un senso di sbigottimento che per eccesso di visione si trasforma in rivelazione. La verità è dentro la ferita, “tu ti riaffacci e / qui si muore ogni volta”, è dentro il difetto d’essere che proprio perché tale è in grado di produrre il senso.
Materialmente e simbolicamente è il difetto ottico, la “diplopia binoculare” della poesia che innesca lo svelamento; il gioco delle rifrazioni degli specchi, delle doppie o triple viste, senza le quali tuttavia la vita coinciderebbe con un deserto sterile.

 

diplopia binoculare, mi hanno detto

ad un perverso gioco di specchietti
da qualche tempo mi sono
consegnata
di echi e di riflessi prigioniera

quasi cieca
per eccesso di visione

Quindi vedere o dire la poesia può solo se accetta questa condizione, il suo essere accecata oppure ferita o anche semplicemente orbata dell’ortottica interezza. Del resto il centro di ogni autentica sovranità non sta nel suo stesso dileguare?

 

Alessandro Cartoni

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