TOTO LORENZO, IL MAGO DEI POVERI
“Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio”, diceva Jorge Luis Borges. Molti lettori mi hanno scritto sostenendo che tra le pagine più belle (perché divertenti) del romanzo Il talento della malattia (Avagliano, 2012), ci sono quelle dedicate a Juan Carlos Lorenzo, che evidentemente il mondo sportivo, specie romano e in particolare laziale, ricorda con affetto e nostalgia. L’allenatore argentino prese per la prima volta il timone in mano nella stagione 1962/’63 e tornò alla Lazio nei campionati 1968/’69 e 1984/’85. Soprannominato Toto, don Juan, il mago dei poveri (per contrapporlo ad Helenio Herrera della grande Inter), il fromboliere ecc., aveva giocato in Italia, nella Sampdoria, dal 1948 al 1952, ricoprendo il ruolo di trequartista sinistro con buone capacità inventive e dotato di un gran tiro in diagonale. Si narra che in preda alla febbre dovuta ad una bronchite, nel 1968 visionò Giuseppe Wilson e Giorgio Chinaglia all’Internapoli e di ritorno a Roma disse di aver scoperto un difensore all’altezza di Burnich e colui che sarebbe diventato il più grande attaccante italiano. La salute doveva avergli giocato un brutto scherzo per alcuni dirigenti, ma il presidente Lenzini seguì il consiglio degli astri del suo allenatore e acquistò i due giocatori tra lo scetticismo della piazza. Ebbe pienamente ragione. Juan Carlos Lorenzo era un uomo in controtendenza: negromante, sensitivo, indovino, stregone, incantatore, illusionista. Perfino un fattucchiere, secondo qualcuno. Le sue capacità divinatorie nascevano per lo più dalla scaramanzia. Dopo una sconfitta faceva bruciare le magliette; per propiziare la buona sorte accendeva i fuochi dentro lo spogliatoio; per conciliare un risultato positivo imponeva che il pullman della squadra attraversasse gli incroci con il semaforo rosso. Spesso, nei pressi dello stadio Olimpico, si rischiavano incidenti prima di una partita. Nella trasferte pretendeva la camera d’albergo numero otto, e se era occupata, bisognava liberarla immediatamente. Come hanno scritto i giornalisti dell’epoca, teneva i giocatori in campo per ore a preparare schemi, ma se perdeva la partita la colpa era delle spie che vedeva in ogni angolo dello stadio e del campo di allenamento. E’ stato capace di indossare per mesi lo stesso vestito, le stesse scarpe luccicanti, la stessa cravatta blu e di mangiare le stesse cose a pranzo e a cena (specie l’insalata e i dolci). Fece inseguire una gallina a Tor di Quinto per sveltire i movimenti dei difensori. Curava personalmente le infiammazioni tendinee con la chiara d’uovo e le fasciature strette. Fece dimagrire il filiforme Daniele Filisetti di tre chili in cinque giorni perché avesse lo stesso perso forma di Trevor Francis, l’attaccante che doveva marcare la domenica. Filisetti uscì dopo il primo tempo, stremato, e rimase a letto due giorni con la flebo attaccata al braccio. Lorenzo pregava, ma non si sapeva in quale lingua. Obbligava i suoi giocatori a tingersi le mani di una strana sostanza che provocava un’allergia a contatto con la retina. Quindi l’obbligo era di infilare le dita nell’incavo del bulbo oculare degli avversari che arrivavano minacciosamente in area di rigore.
“In fin dei conti il calcio è fantasia, un cartone animato per adulti”, sosteneva Osvaldo Soriano, il celebre scrittore argentino. Ora i tempi sono cambiati e queste cose fanno sorridere, ma allora avevano un peso decisivo. Innanzitutto facevano innamorare i tifosi, tanto che quando Lorenzo abbandonò la formazione bianco-azzurra per la seconda volta, nacque un gruppo spontaneo, “La coscienza della Lazio”, che ne reclamava a gran voce il ritorno. Il suo successore fu Tommaso Maestrelli, il padre buono, l’allenatore del primo scudetto. E fu subito amore. Ma la storia tra Lorenzo e la Lazio non si era ancora conclusa, negli anni Settanta.
La settimana del 25 settembre del 1984, ero ricoverato all’Istituto Ortopedico Rizzoli. Fuori dei finestroni dell’ospedale che fu il luogo di San Michele in Bosco e che ospitò un cenobio di eremiti rifugiato sul colle bolognese, si respirava ancora l’aria da biblioteca dei monaci e del convento eretto nel 1500. L’istituto divenne un grande polo di traumatologia e ortopedia alla fine dell’Ottocento e a partire dagli anni Cinquanta del Novecento l’unico centro italiano di cura delle neoplasie ossee infantili. Solo nel libro SS Lazio. Epopee e travagli biancoazzurri di Mimmo De Grandis (Edi Grafica, 1977), quando ero un bambino che frequentava le scuole elementari, avevo letto delle insolite gesta di Juan Carlos Lorenzo. Mia madre spingeva la carrozzella lungo i corridoi bui del Rizzoli, verso l’ora di cena. Il silenzio era irreale, come potevano sembrare le morti avvenute in quell’ospedale e alle quali assistemmo esterrefatti. Non c’erano parole che potessero consolarmi. Avevo in mano “Il Corriere dello Sport”. A Bologna tuonava e si era scatenato un violento temporale settembrino. La pioggia cadeva a taglio rovinando sulle foglie di ippocastano accartocciate a terra e sui gradini corrosi di una scaletta di legno lasciata accanto alla porta. Ci fermammo davanti al chiostro dove c’era ancora un po’ di luce violacea che scendeva da un cielo tumefatto. Sul giornale, in prima pagina, si parlava dell’arrivo di Lorenzo all’aeroporto di Fiumicino. “Seguo perfettamente il campionato italiano e ho detto a Chinaglia che so tutto. E’ solo una questione di morale. E io in queste cose sono un maestro”, dichiarava il mago dei poveri, sfrontato ed ottimista al suo sbarco. Giorgio Chinaglia presidente non aveva dimenticato il suo scopritore e lo richiamò per cercare di sanare una difficile situazione specie perché la squadra era divisa in più clan. Ma lo fece anche per un debito di riconoscenza. Scrivo nel mio Il talento della malattia: “Il suo profilo gonfio, fiero, i capelli impomatati e la pelle increspata, gli davano l’aria del signorotto di campagna. Adoravo Lorenzo che a Tor di Quinto salutava con un inchino e palleggiava al centro del campo, che parlava un incomprensibile linguaggio, a metà tra l’italiano e lo spagnolo. Ritagliavo gli articoli, mi aiutava mia madre. Li ammonticchiavo e li infilavo in una valigetta. Chinaglia disse che non avevano parlato di soldi. L’allievo chiamò il vecchio maestro. Aveva bisogno della sua autorità in un ambiente sempre anarchico”. Chissà, forse Chinaglia aveva anche bisogno di chi sapesse cacciare gli spiriti maligni una volta per tutte. Si era perso parecchio tempo per cercare Lorenzo, infine rintracciato a Miami, in Florida, mentre era sdraiato a prendere il sole in spiaggia. Peccato che non fosse più quel tatticista vecchio stampo che faceva leva su alchimie e grinta, quel personaggio che la stampa romana paragonava ad un pirata di Salgari o ad un investigatore di Chandler. Aveva perso smalto, appariva invecchiato. A quasi settant’anni le sue energie erano venute meno.
La squadra inizialmente reagì bene, ma con l’arrivo dell’inverno subentrarono ben sette sconfitte consecutive che costrinsero Chinaglia all’esonero del mago, nonostante la presenza di Giordano, Manfredonia, D’Amico, Batista e Laudrup, calciatori di levatura indiscutibile ma che si odiavano l’un l’altro. La Lazio non si salvò dalla retrocessione, nonostante Lorenzo le avesse tentate tutte. Mise fuori squadra l’idolo della curva nord Giordano, reo di complottare contro di lui giorno e notte. Fece cambiare maglia al portiere Orsi, durante l’intervallo di una partita, perché il colore rosso attirava gli attaccanti come fossero tori. L’estremo difensore indossò una casacca grigia e in quell’occasione la Lazio pareggiò all’ultimo minuto. Fece marcare Maradona trenta minuti per ciascuno dei tre difensori a disposizione, perché per tutta la partita nessuno avrebbe retto il confronto. Ma il Pibe de Oro segnò tre splendidi goal che rimangono ancora nella cineteca del calcio. Uno di questi addirittura su calcio d’angolo tra l’ovazione del pubblico napoletano e gli spergiuri di un disperato Lorenzo. Non serviva neppure entrare in campo con il piede sinistro, spargere il sale sul dischetto del rigore, toccarsi il naso prima di battere una punizione. Il destino era segnato. Per me, invece, non cambiava nulla e continuavo a tifare per la strana accoppiata Chinaglia-Lorenzo.
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L’alba, quel giorno, era di un bianco latteo. Uscii dall’ospedale per l’ultima volta, nel maggio del 1985, accompagnato da mia madre che sorrideva, finalmente distesa. Lorenzo era già rientrato in Argentina e gestiva un ranch con un allevamento di cavalli. La Lazio di Chinaglia sarebbe ripartita dalla serie B con in panchina un gentiluomo, Luigi Simoni. Ero clinicamente guarito dal sarcoma di Ewing al bacino, per il professor Mario Campanacci, ma avvertivo che non avrei dimenticato la mia pena, l’ospedale, la morte dei bambini malati. Per un paio di anni ho cercato la brillantina Linetti, quella preferita da Juan Carlos Lorenzo, a base di cera e olio. Pensavo mi portasse fortuna. L’avevano usata anche Humphrey Bogart, Tyrone Power, Fred Astaire, Elvis Presley e James Dean. Per un paio di anni sono sceso dal letto con la gamba sinistra per imitare il mago. Giorgio Chinaglia si ritirò negli Stati Uniti, nel 1986. Sentii una stretta al cuore, come quando un appuntamento non torna. L’eroe della mia infanzia aveva lasciato la Lazio, la mia Lazio, e forse per sempre. Del Toto Lorenzo non si seppe più niente, se non quando il 14 novembre del 2001 morì a Buenos Aires e fu lanciata un’agenzia di stampa. Per suo espresso desiderio il corpo è stato cremato e le ceneri sparse dietro una delle porte della Bombonera, lo stadio argentino del Boca Juniors, la sua squadra del cuore in Argentina, la prima con la quale aveva giocato e l’ultima che allenò.
Alessandro Moscè
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