‘L’età bianca’ di Alessandro Moscè, recensione

‘L’età bianca’ (Avagliano Editore) di Alessandro Moscè

Recensione di Claudio Cesaroni

Amore, Destino, Memoria, Mito, Morte e Tempo: sono questi gli archetipi che sottendono il discorso emotivo, rappresentandone anche i nuclei di riflessione, che si articola nel romanzo “L’età bianca” di Alessandro Moscè, Avagliano Editore, Roma 2016.
L’autore riesce, mantenendo mirabilmente l’equilibrio tra autobiografia, saggio e romanzo, a strutturare i rapporti tra questi archetipi facendo risuonare sempre una nota elegiaca.
L’Amore che non può non essere destino, memoria, mito, morte e tempo, è il capo del filo che tesse la trama narrativa ed il punto centrale dell’ordito emotivo che dà respiro vitale a quella trama.

Tutto comincia dalla correlazione tra due degli archetipi sopra enunciati, la Memoria e l’Amore: Alessandro, l’autore-protagonista, ricorda Elena, o meglio quello che non visse con lei e che non le disse, ed è in questo vuoto che gonfia dolorosamente il cuore e che tormenta la memoria con il rimpianto, che il tempo, un altro degli archetipi, il tempo della vita del protagonista si sospende; in questa specie di incantesimo, dove la vita non scorre più, l’autore rinviene le condizioni più adatte per la nascita del Mito: mito nel senso etimologico, cioè racconto.

Alessandro Moscè ci rivela un segreto doloroso che è quasi una equazione sapienziale: l’amore incompiuto, muto, diviene necessariamente fantasma, od anche demone talvolta, della memoria e si può apparentemente condurre una vita (il protagonista-autore frequenta l’università, si avvia alla professione di giornalista, ha annoiate relazioni con donne che non siano Elena), ma il tempo dell’esistenza si è arrestato, e vivere ormai non può essere che ricordare Elena, sognare Elena, fantasticare su Elena e se ne morirebbe se non venisse il Mito a salvarci, se il raccontare, a questo punto, non divenisse un destino (ed ecco un altro degli archetipi del romanzo).

Moscè ci stupisce con una invenzione inaspettata: ci presenta due declinazioni del Mito, scopre che il raccontare ci offre la salvezza in due modi: si può narrare soggettivamente, ma si può anche accogliere nella propria, una narrazione che si fa da sé, che si genera per sua intrinseca forza: qui, però, c’è davvero bisogno di una figura eroica, mitopoietica appunto, di un “Giasone” che raccolga attorno a sé degli avventurosi e ribaldi “argonauti”, di un campione dell’insubordinazione che recluti una “sporca dozzina” per portare a compimento un’audacia impensabile: Giorgio Chinaglia e i suoi compagni di squadra della Lazio dello scudetto del 1974.

Manca all’appello l’archetipo della Morte: fa la sua irruzione nel romanzo in uno dei modi più brutali ed osceni: un sarcoma di Ewing, un tumore che solo in rarissimi casi lascia scampo, rende la morte un’eventualità molto concreta per il protagonista che è ancora un ragazzino; qui il morire si fa possibilità “effettuale” e diviene quasi necessità quando Alessandro, ricoverato nel reparto di ortopedia oncologica dell’Istituto Rizzoli di Bologna, vede spegnersi tutti gli altri suoi giovanissimi compagni di malattia; ed ecco che l’autore, con una maestria sbalorditiva, stabilisce un’altra correlazione tra archetipi, la Morte ed il Mito (cioè il raccontare): nel romanzo “Il talento della malattia”, Avagliano Editore, Roma 2012, Moscè aveva narrato come l’interesse per la malattia e la morte (riprendendo la magnifica intuizione del Thomas Mann de “La montagna incantata”) potesse essere la più alta espressione dell’interesse per la vita, ora ne “L’età bianca”, ci disvela che una guarigione prodigiosa ed arcana, uno sfuggire alla morte così indecifrabile ha un legame misterioso con il racconto delle vicissitudini di Giorgio Chinaglia ed il mesto ed inarrestabile declino della Lazio negli anni ’80; sembra quasi che ci sia una inafferrabile corrispondenza inversa: più il mito di Chinaglia e della Lazio si fa mito dolente, elegia di una decadenza, più irreversibilmente Alessandro si sottrae alla morte.

Ritorniamo ad un altro degli archetipi, il Tempo: la Lazio e Chinaglia hanno concluso il loro tempo glorioso, sono “morti” al posto di Alessandro, si sono sacrificati affinché lui continuasse a vivere, gli anni ’70 si sono conclusi e non c’è più nulla da raccontare, negli anni in cui il protagonista guarisce, gli ’80, di quei guasconi intemperanti e di talento, alcuni fascistoidi come lo si poteva essere solo negli anni ’70.
Alessandro è guarito, ma il tempo della vita che scorre e palpita è ancora immoto, il suo è ancora il tempo della memoria di Elena, del sortilegio che lo imprigiona nel congetturare immaginoso su dove lei possa essere, che aspetto possa avere e che vita possa condurre; Moscè ci fa anche capire che, nonostante la stasi esistenziale, in questo tempo interrotto, tra i sogni, i rimpianti e le “malie” e forse proprio grazie alla sensibilità aerea, lieve che questo incanto sospeso ci conferisce, si può cogliere il significato profondo di un incontro con una figura, quella del poeta Mario Luzi, che sembra fatta di vento, di un “altrove” che balugina nello sguardo del grande maestro e ci sussurra all’orecchio quali siano le nostre più autentiche inclinazioni.

Ma se l’Amore, facendoci scivolare nel rimpianto della Memoria, rappresenta un Destino di Morte: ed ecco un’altra correlazione di archetipi, quasi un’equazione, ad Alessandro non resterà che l’ultima risorsa Mitica cui ricorrere per far sì che il tempo del vivere torni a fluire e sarà l’azione, il Mito (racconto) fatto di azioni, non più l’azione salvifica del Mito (racconto); troverà Elena, le parlerà, la corteggerà scanzonato e risoluto stavolta, faranno l’amore e la condurrà rapinoso, dolente, animato da una rabbia fosca, al padiglione, ormai dismesso, dell’Istituto Rizzoli in cui era stato ricoverato e qui attraverso un altro racconto (Mito) fatto di azioni di fronte ad un’Elena spaventata e smarrita come lo sarebbero tutte, distruggerà alcune masserizie e attrezzature ormai abbandonate; ma l’agire di fronte ad Elena, con Elena, il manifestare il dolore, la sofferenza, la rabbia ad un “altro-da- sé” e capire che questo “altro-da-sé”, che replica, disapprova, non condivide, dice sciocchezze come tanti altri farebbero, non vive più solo nella memoria, nel rimpianto, nella svagata aerea fantasia, ma compie il suo Mito, costringe ad ascoltare il suo racconto e riconduce, così, nello scorrere del Tempo della vita. Elena tonerà a casa dalla sua famiglia, attenderà di nuovo alla sua dieta, si dedicherà ai suoi esercizi di ginnastica posturale che sembrano proprio rappresentare un ritorno all’ordine, alla quotidianità, a volte anodina ed insignificante, della vita; non risponderà più al telefono ad Alessandro, perché il Destino è ormai compiuto, tutto è stato narrato.

Il protagonista, invece, risponderà alla telefonata del suo editore di Roma e verrà informato che un regista vuole trarre un film dal suo ultimo romanzo “L’età bianca”; Alessandro, mentre aspetta di incontrarlo, passeggia per “Villa Borghese”, e i colori e la luce mutano e a loro volta segnano l’avvicendarsi di persone diverse, l’alternarsi di voci e silenzi e la vita trascorre, trapassa di stato in stato, a volte rapida altre lenta, comunque inarrestabile; l’autore prova un malinconico sconcerto di fronte a questa inesorabilità del fluire della vita e sembra quasi rimpiangere il momento in cui il tempo della sua vita si arrestò, quando il non rivelato ed il non vissuto amore per Elena lo sospesero nell’incanto, che a volte si tramuta in ossessione, del ricordo e del rimpianto; Moscè, a mio avviso, qui, ci consegna furtivamente, quasi ne avesse paura, un’ultima riflessione: se avesse dichiarato il suo amore ad Elena e trovando corrispondenza, quel sentimento si fosse realizzato nella sua pienezza, con una ragazza ed un ragazzo che si parlano, interagiscono, si confrontano, condividono, insomma tessono una relazione viva, mobile, esposta al rischio di finire, vulnerabile alla caducità e che sottostà necessariamente al compromesso, non ci sarebbe stata nessuna “età bianca”, nessun biancore abbacinante che tutto fissa, immobile, nella memoria, una memoria di luce piena e ferma, dove dall’incompiutezza di un amore nasce una età senza tempo: l’adolescenza.

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