Innamorarsi rende liberi da ogni genere di pregiudizio.
E la poesia di Matteo Bianchi lo dice “fortissimo”
DI STEFANO SCANSANI
«Ho deciso, precisamente tre anni fa, che non avrei più usato nessuno. / Che fosse per piacere carnale, o ambizioni di carriera, / non ho più voluto ferire a tradimento / e continuo a tracciare la mia rotta senza spada». Matteo Bianchi, il poeta, dev’essere un tipo che si innamora spesso. E non si sa se – per lui – irrompa prima l’innamoramento e poi il verso, o viceversa, oppure se sia tutta un’invenzione; o meglio, una pulsione che nella realtà non c’è, ma è cercata, immaginata, costruita nell’intimo discorsivo e tribolato così prepotentemente da tornare vera. Serve una chiave per entrare in Fortissimo (Edizioni Minerva, 2019, pp. 96), il recinto poetico di Bianchi. È quella conchiusa e disponibile nel Diario di un amore in data 13 maggio, e sta in un verso limpido e conciso: «La maledizione innocente di chi mai si accontenterà della sua passione». Quella che espone la è la sua beata dannazione, che egli si va a cercare per mettere in dialogo i sentimenti. Sempre amorosi e amatori, come avvenuto nella raccolta precedente, in cui reclamava, dolorava e godeva di una promiscuità, di una condivisione, di un’assenza: La metà del letto(2015).
Preparo il bollitore
per il tè verde
«anche per me?
Se lo trovi – tra le bustine –
anche un uomo che mi ami».
L’equilibrio nostra infusione.
I pensamenti suoi, rarefatti o concretati in poesia, diventano di tutti. In questa nuova raccolta Bianchi tira in ballo gli echi delle sue radici liquide. La terra e l’acqua dalle quali nasce il suo intimo parlante provengono da tre genealogie. La prima, da Sbarbaro con Pianissimo a Fortissimo un secolo dopo, sia per omaggiare un grande dimenticato della lirica italiana, sia perché la poesia deve influenzare necessariamente la materia animata. La seconda, da Sereni, il poeta da lui più amato che tentò di abbandonare i versi per le righe, ma senza la convinzione che travestire l’impatto della realtà con la finzione avrebbe funzionato. La terza, da Parise, sedotto dalla calma Venezia, che con le poche parole dei Sillabari cercava l’armonia negli angoli del mondo e faceva tornare i conti con le piccole cose.
«Non smetterò di volgermi al passato»,
ti provoco eccitato nella doccia,
sussulti – lo spavento – tremi
– penserai a tutte quelle impronte
in me che si sono fatte Forma –
scosti l’orecchio per orgoglio,
e ribatti: «perché ti ostini?»
«Non cederò la mia storia», la risposta
liberatoria di chi gareggia a trattenere il fiato,
nella fantasia di una vasca.
«Non posso fare altrimenti».
Se ogni foto avesse la sua verità nascosta,
passatempi fasulli per bambini,
la barchetta di carta che dondola
sarebbe solo un foglio di cronaca
piegato male.
Piccole cose. Come la trasfigurazione che si raddensa e si scioglie in La via per Canossa, il componimento che apre questa collezione. L’autore l’ha pretesa per prima perché è il glossario concettuale delle pagine seguenti: una guida alla comprensione, anche alle stonature di un Fortissimo che spiega la suggestione e la deformazione che un amante ha del resto intorno. Una strada di periferia, un’attesa, una solitudine possono pigliare le sembianze della salita alla rupe, dello scivolamento dai calanchi, di un qualcosa di mitico, addirittura di eroico. È il fiato che modella, fortissimo, le vedute. I fortissimi sono infatti quelle notazioni che indicano l’intensità sonora per un’interpretazione musicale. Più avanti Bianchi avverte:
Insistevi che il poeta
deve tutto alla musica.
Ti ripetevo che il poeta
deve invece camminare.
Non stancarsi subito
di tornare indietro,
riattraversare la stessa porta,
reduce delle stanze
quando scappa di casa.
Così il componimento insieme alla sua sonorità diventa fisico. Cammina, torna, riattraversa, scappa. Magari ad alimentare l’habitat poetico di Bianchi è proprio la condivisione della divisione, che altro non è che l’inquietudine amorosa. Anzi no, la fortissima fame di scrittura.
22 MAGGIO
Loro e noi, i dispersi e i disperati. Una questione di “d”, dura, dark. D’altronde, hanno lasciato che li chiamassero debolmente “Tartari”, i motivi di quelle fortezze di sabbia difese dal niente. Purtroppo non c’è barriera che tenga il vuoto, se non alla stregua del malessere: ognuno gli dà un nome, fa come può, come gli è capitato. I più fortunati riescono a immaginarlo con l’ultimo sorriso.
MATTEO BIANCHI, 32 anni, si è specializzato in Filologia moderna a Ca’ Foscari sul lascito lirico di Corrado Govoni. È libraio, giornalista pubblicista e collabora con varie testate del Gruppo Gedi, con “Leggere:tutti”, “QuiLibri”, “Poesia” e Punto. Almanacco della poesia italiana. Ha pubblicato le raccolte Fischi di merlo (Edizioni del Leone 2011), L’amore è qualcos’altro (con Alessio Casalicchio, Empirìa 2013), La metà del letto (Barbera 2015) e la plaquette Un’ombra in due (L’Arca Felice, 2014), in parte interpretata dal cantautore Germano Bonaveri.
È stato presentato su “Gradiva” (State University of New York) sia da Giancarlo Pontiggia sia da Francesco Scarabicchi. Suoi versi sono apparsi sulle antologie Quadernario (a cura di M. Cucchi, LietoColle 2016) e Il silenzio acuto del mattino (a cura di G. Sica, Giulio Perrone 2012), sulle riviste “L’immaginazione”, “Soglie”, “Capoverso”, “La Clessidra” e “Il Filorosso”. Suoi contributi critici, invece, su “Il Ponte”, “Semicerchio”, “Letteraria”, “Il Segnale” e “Atelier”, di cui ha curato il monografico sulla poetica di Anna Maria Carpi (n. 73, marzo 2014). È stato tradotto in tedesco da Ingrid Ickler per la Regione Assia, in francese sulla “Revue Verso” (Lucenay), in olandese da Benjamin Jago Larham per il Conservatorio Reale (l’Aia), in spagnolo su “Funciòn Lenguaje” (Madrid) e su “Vallejo & Co.” (Perù). È tra gli ideatori dell’Elba Book Festival, dedicato all’editoria indipendente.