In cuor vostro ed altri versi

Seguo la poesia di Silvio Ramat da diversi anni ed ogni suo libro nuovo che leggo mi sorprende per originalità e raffinata eleganza.

La più recente raccolta edita da Crocetti nel dicembre del 2019, In cuor vostro e altri versi, colpisce per la ricchezza di contenuti e sfumature e il tono sempre equilibrato e misurato dei versi, che vengono a comporre, nel metro principe della nostra tradizione, l’endecasillabo, un’eufonia di suoni e vibrazioni intense. Al compimento dei sedici lustri Calliope non lo abbandona, anzi lo conduce lungo strade sempre nuove. A questo libro fa da sfondo, tuttavia, il senso incombente di un possibile addio alla vita e della solitudine a cui tutti siamo soggetti, per l’incedere degli anni e la progressiva scomparsa degli amici e dei tanti che abbiamo amato.

La parte centrale del libro, In cuor vostro (poemetto pubblicato sempre da Crocetti, qualche mese addietro, in vista dell’ottantesimo compleanno del poeta, in un’edizione fuori commercio) è una sorta di ragguaglio, che l’autore porge ai suoi due figli, oggi “assorbiti nell’impegnativa pienezza dell’esistenza, da un dopo morte, un aldilà immaginario. Non è dunque un itinerario dantesco attraverso l’esperienza dei vari mondi ultraterreni, ma piuttosto la dimora in un luogo di fantasia, atemporale, sereno, come diremo più avanti.

Ad aprire e a chiudere il libro odierno sono due testi che parlano del fare poesia e del farsi della poesia. La prima è una risposta ai possibili quesiti sulla strada ormai sessantennale coperta dalla poesia di Ramat. Il suo linguaggio, talvolta oscuro agli esordi per fedeltà ai maestri dell’ermetismo fiorentino, si è man mano evoluto nel senso della chiarezza: “Estrema conversione il desiderio/di imitare i poeti ad occhi aperti/ imitando la vita con l’amore/ della vita che fa chiaro ogni verso.” La poesia di chiusura invece, si riferisce al mistero della rima che sboccia senza preavviso e (solo per un attimo) chiarisce “l’oscuro groviglio/ tra una cosa vissuta e una ideata.

Sei sono le sezioni della raccolta: In lungo e largo, Un Virgilio e un Arcangelo, Gemme della memoria, In cuor vostro, Me compreso, Rima. La nota caratterizzante della prima è la luce dell’ironia, lo sguardo malizioso e disincantato con cui il poeta riflette sulle cose, sul tempo passato, sul suo viso che tende a riempirsi di “pieghe indelebili”. L’ironia giova a spezzare la tensione emotiva, diffondendo leggerezza; del resto la frase-manifesto più convincente sull’ironia rimane quella di Victor Hugo: “La libertà comincia dall’ironia”. E Ramat qui si diverte anche a immaginare quale uso nella loro poesia avrebbero fatto del pomodoro e della patata Dante e Petrarca se li avessero conosciuti. Non mancano, tuttavia, in questa medesima sezione, poesie meste, per maestri o amici scomparsi: intensa e vibrante di nostalgia è quella dedicata ad Alessandro Parronchi: “Cedeva con lui/ l’antenna estrema d’una mia Firenze/ di cipressi e pietre non funerarie;/ lo sfondo le colline dei poeti/ e più in basso i torrenti prosciugati”. Con la sua morte, dice il poeta, muore tutto un mondo di cultura e d’arte di cui Firenze era stata il centro. Si ripensa a un altro suo libro, La buona fede. Memoria e letteratura, nelle quali emergono alcune figure significative nel suo percorso umano e poetico: da Giuseppe De Robertis a Gatto, Sinisgalli e Jacobbi; da Montale a Solmi e Betocchi; da Luzi a Caproni e Raboni; da Bigongiari a Parronchi e Luciano Erba. Tutti nomi di grande rilievo nella poesia italiana del Novecento.

Come si detto, Ramat coltiva da sempre una sua anti-retorica, un suo peculiare understatement. Ma tra i motivi portanti della sua lirica c’è il ricordo, e il suo bacino più fertile sono le memorie familiari. Memoria non è solo un bisogno di ritrovare il passato ma (come suggerivano i poeti dell’ermetismo) è una forza propulsiva, che tende sì a recuperare il passato ma per immaginare o indovinare che cosa c’è oltre i nostri umani limiti.

“Un Virgilio e un Arcangelo” è una lunga sequenza di endecasillabi dall’andamento narrativo (ne parla acutamente Davide Puccini sulla rivista “Poesia”), dedicata a due amici, ormai scomparsi, che insegnavano in università americane, Remigio Pane e Michele Ricciardelli. Vi si riferisce di una problematica trasferta a New York; qui Ramat riprende il tema a lui caro del viaggio e dello spaesamento ch’esso comporta. Una condizione altamente poetica che talvolta sospinge chi la prova al limite della desolazione.

La sezione Gemme della memoria rievoca le figure mai obliate del padre e della madre: “Comete perdute/ in un ormai remotissimo cielo” sono i ricordi di quel che il poeta visse stando insieme a loro. Il tema della paternità è sempre forte: “Dire del padre nel nome del padre. / Leggero focolare mia famiglia”. Col padre, italianista come lui (e durante il Ventennio fiero oppositore del fascismo) Silvio aveva molte passioni in comune. Nel rievocarne a ciglio asciutto la tragica morte, si duole che lui non sia più tra i vivi a consigliarlo come una volta: “Non so, vorrei capire dove sbaglio/ e se sbaglio, ma lui non c’è: sparito/ trentasei anni fa, in una fiammata”. Figura non meno importante per la sua formazione è la madre, che lui aveva celebrato molti anni or sono nel racconto in versi Mia madre un secolo. Dotata di una forte personalità, ella seppe con i suoi insegnamenti semplici e rigorosi (talvolta fonte di conflitto con i figli), di condurre la famiglia: – “C’è una voce nella mia vita…” – /   C’era/altro, veramente: c’era la mano/ di chi senza sprecare una parola, / la preghiera insegnava e il sacramento. / La mano li guidò a lungo, e l’esempio;/ ma i figli, come accade, si distrassero/ durante l’adolescenza. / Smarrita/ la preghiera, serrato il sacramento.”. Deliziosa è anche la poesia in onore del basilico: Silvio si rivede bambino a cui la madre impone di correre a prenderne qualche foglia in giardino, anche sotto una pioggia torrenziale. “Ecco, zuppo, il fanciullo: ride, in pugno/ la sua preda odorosa. Foglia a foglia/ ogni scodella ne riceve: è un verde/ che da solo basta a far primavera”.

Fin dai suoi albori ogni poesia, non esclusa quella di Ramat, ha sentito naturalmente profondamente il valore del tempo. Nella canonica suddivisione tra passato, presente e futuro, il futuro si è via via colorato di una riflessione, pur sempre tranquilla e consapevole, sulla morte. L’accettazione di tutto ciò che l’esistere (morte inclusa) comporta fa sì che egli abbia voluto quasi esorcizzarla, con un lascito spirituale diretto agli amati figli. A loro infatti si rivolge il poemetto In cuor vostro; lo stesso Ramat, in una prosa preliminare ci confida di avere, sì, avuto due fratelli e una sorella ma di sentirsi vincolato in una più stretta e drammatica relazione di “verticalità” con i genitori e i figli, ai quali figli indirizza ventisei lettere in versi. Immaginandosi ormai approdato di là dalla vita, cerca di descrivere la sua nuova dimora. Un’atmosfera rarefatta e luminosa avvolge quell’aldilà. Più volte nel poemetto si fa il nome di Dante, ma è ovvio che nulla possa esservi di veramente dantesco. Non resiste nemmeno l’idea dei tre regni, i quali “erano solo un astratto disegno, / una pedagogia che persuadeva/ ogni vivente al bene e alla speranza/stornandolo dai più feroci vizi”. Questa dimora è pervasa da una delicata brezza che sa di calicanto, e qui niente e nessuno soggiace più ai “soprassalti di umane ansietà”. Una luce grigioperla rischiara questa “tenuta” senza confini, dove fiorisce eterna la rosa e si innalza la preghiera delle anime come un lieve vento; preghiera non per i propri cari, ma per l’intero creato.

Ritorna alla mente, leggendo questo poemetto, la preghiera di Sant’Agostino, in cui la morte è considerata “un nulla”, soltanto il passaggio in un’altra dimensione, che non spezza i legami d’amore vissuti sulla terra: “Rassicurati, va tutto bene. / Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai la tenerezza purificata. / Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: il tuo sorriso è la pace.”

Silvio Ramat conclude In cuor vostro con splendidi versi, che lo confermano poeta lirico, anche se di un lirismo senza enfasi né sbavature: “Solo se l’amore s’interrompesse/ cesserebbe quel soffio, ma provvede/ a tener salda la nostra famiglia/ una costellazione eterna, il Cuore. / Vi prego di accettarmi qualche volta/ nei vostri sogni, ombra discontinua/ che vi ringrazia della vostra vita. // Dove svernate quest’anno, miei cari?”.

In Poesia di ieri (nella sezione Me compreso), l’autore difende la sua scelta metrica degli anni recenti: un endecasillabo, come scrive Davide Puccini, appena al disopra del sermo cotidianus, che ormai da parecchi anni caratterizza la sua scrittura: “Da qualche tempo, senza pentimenti,/ scrivo poesia di ieri; scriverò/ in un metro costante, il più sicuro,/ finché mi assista una musa, parole/ antiche nel rispetto di grammatiche / e dizionari scampati all’invidia/ dei traslochi infiniti, alle derive.” In questi versi, se c’è qualcosa d’antico, è la (parodica) invocazione alla musa, al cui arbitrio soggiacciono tutti gli scrittori, e il richiamo ai vecchi dizionari e alle antiche grammatiche: forse un tacito rinvio al rispetto delle regole, ormai spesso stravolte in tanta parte della poesia corrente.

Come anticipavo, la raccolta si conclude con una sezione costituita da un’unica poesia, Rima. Sulla rima Silvio Ramat lavora con leggerezza: se in un verso gli pare di averla faticosamente trovata, sopraggiunge come un’ondata il verso successivo che “travolge nell’oblio il primo”; resta solo lei, la rima; ma “il senso è perduto”. La ricerca della rima talvolta può disorientare un poeta. Ma In cuor vostro e altri versi è una splendida testimonianza dell’ars poetica di Ramat, ricca di tematiche, di affetti ed aliena, come si è detto, da ogni facile retorica.

 

Raffaella Bettiol

 

Gli appelli

Ventenne, a nome più d’altri che mio
(era tra gli oneri della felice
mia repentina popolarità),
sondavo (in anni che l’autorità
vigeva asciutta, senza cedimenti)
la bonomia (talvolta la bontà)
di qualcuno fra i nostri professori
disposto a dilatare il calendario
dei suoi appelli d’esame.
Io gli illustravo
i motivi fondati della causa:
luglio e novembre erano i mesi utili
al post-appello. Ebbi spesso fortuna:
usando garbo e deferenza, ottenni.

È sepolto quel tempo, e il privilegio
del chiedere per molti, io delegato.
Ormai è sessione perenne e nessuno
più mi esorta a impetrare in suo favore.
Ma ogni tanto ho il sospetto che dall’imo
del petto mi risorga, voce fioca,
il passato: a pregarmi ch’io lo ascolti
appellandosi a memorie vetuste,
a mie mansioni che non sa – l’ingenuo –
esaurite da un secolo.
Finita
senza più code è la nostra partita.

Oggi per me solo dovrei impetrarli
i post-appelli, estivi ed autunnali.
Volentieri mi umilierei, ma a quali
cattedre chiedere udienza lo ignoro.

29 luglio 2019

Rima

Senza preavviso sboccia, ti fa chiaro
per un istante l’oscuro groviglio
tra una cosa vissuta e una ideata.
Poi, come l’ondata che sopraggiunge
travolge nell’oblio l’ondata prima,
la rima resta ma il senso è perduto.

4 aprile 2018

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