La ragione della polvere di Luca Pizzolitto

La ragione della polvere: 103 testi, scanditi in 5 sezioni, 103 stanze di cui l’autore schiude le porte invitando il lettore a immergersi nel flusso vitale che le attraversa.

Perché Luca Pizzolitto non è di quei poeti che nascondono il proprio intimo sentire dietro circonlocuzioni ed ermetismi artificiosi, nello sforzo di conciliare lo slancio di dirsi con la sottile vanità del mistero. Luca dice con sincerità disarmante le cose come stanno, come tutti le sperimentiamo:

“la vita, anche tu lo sai,
è questa cosa atroce e fragile”

chiamandoci alla comunione nel “peso infermo delle cose”, nell’“affaticata solitudine”, nell’”affanno senza tregua del vuoto”.
I topoi del suo universo sono di quelli intorno ai quali ruota da sempre l’umano discettare: solitudine, amore, ricerca di Dio.

La solitudine, in particolare, non è solo “un tornare di notte e / non trovare nessuno “,
che pure duole, quanto sgomento di pochezza che risuona “nelle nude stanze della mente”:

“Sono povero e smarrito
nel corpo immenso del creato”

La solitudine dei nostri giorni rende stranianti le città, sul cui “deserto” l’autore “con le scarpe slacciate” vacilla. Pure i panorami cittadini non sono quasi mai incombenze angoscianti: solo a volte “autobus sfiniti e take away cinesi “, o il “rumore sordo di camion della spazzatura” fanno da controcanto, addensano, col loro fiato viscoso, il malessere quasi incredulo di sé del

“l’uomo solo,
seduto al centro esatto
della stanza, in un vuoto
pomeriggio di agosto”.

La solitudine guida l’autore a ripiegare in sé stesso, a scavarsi dentro in un progressivo e difficile percorso di conoscenza:

“Mi cerco nelle profondità
sconosciute di me
tra vestiti usati e amori dismessi “;

gli rende familiare l’esperienza del “nero della notte /…entrato nella pelle”, ma non diviene mai pozzo di disperazione. Basta al poeta distogliere lo sguardo da sé, volgerlo attorno, a un paesaggio che accoglie e, se non può guarire, cura. Ecco allora la “materna tenerezza/ di queste montagne”, il “cielo in cui si adagia la sera”, e la luce, la luce sontuosa, sovrana che scende ad avvolgere, a consolare, che “restituisce al giorno/ i mutevoli spazi del cuore”, offrendo una possibile convivenza, in pacificata armonia, per “la rovina e il canto”.

Non sono però del tutto risolte, non così facilmente, le “cicatrici del buio”. L’autore deve fare i conti con una spina nella “parte oscura del cuore”: il “desiderio incontenibile / di essere amato”.
Così, nel familiare abbandonarsi “al lento accadere / delle cose” si affaccia l’amore, variabile dal potere destabilizzante, elemento ingovernabile che nel coinvolgere altri oltre sé espone alla possibilità di un fallimento. Forse per la stessa smisurata vastità del desiderio d’amore.
Il mistero ineffabile della comunione con un altro corpo meraviglia e sgomenta:

“Mi avvicino al tuo corpo / avvolto nel tepore del sonno”

“Mi fermo, insicuro, mi fermo
sulla soglia della tua schiena,
privo ormai di ogni certezza”.

Anche nel piacere condiviso finisce per farsi strada un senso di inadeguatezza dell’istante e dei corpi:

“Non arde e non consola
questo amore ramo spezzato
nell’inverno dei cuori”.

Il naufragio che “colse nel sonno, / nella quiete di un mattino d’aprile” diviene presto “dolore di agosto”; stempera tra quello di salvia e rosmarino l’odore “di te che non sei più qui, ormai”.

Sono i fatti della vita a nutrire il sentimento poetico di Luca Pizzolitto che, un testo dopo l’altro, spunta dalla sfilza del calendario “i giorni in cui in cui abbiamo capito che / il senso profondo delle cose / è lì, ci guarda, e non ci appartiene”. Piccole conquiste personali, acquisizioni di consapevolezze che hanno l’incisività di fulminazioni, e vanno a incastonarsi nella generale trama della vicenda umana dell’autore.

C’è un’ulteriore suggestione che colpisce, scorrendo i 103 componimenti: il senso di una grazia, intesa nell’accezione spirituale del termine, di una “benedizione” che redime anche i più pericolosi vuoti dell’anima. Non a caso “Benedizioni” è il titolo di una sezione, quella che più delle altre raccoglie echi di questa privatissima interlocuzione con Dio. Si parte da uno dei testi iniziali della raccolta, dove è ancora grande la distanza tra invocato e clamante: il poeta avverte nell’inquietudine del suo sentirsi niente “il vuoto straziante di Dio”, ma lo solleva la vista rasserenante delle api che “tracciano geometrie gioiose / tra i fiori di pesco e il cielo”. Quasi Dio avesse gettato uno sguardo sorridente, interlocutorio e anticipatore, su quello scampolo di tempo e di mondo.

E il percorso di avvicinamento procede, passi ne affiorano qua e là, come sassi sporgenti sul greto di un ruscello dove si andrà a posare il piede per raggiungere la sponda opposta – la mèta attesa: di volta in volta è “una grazia appena intravista”, “una fede scalza e silenziosa”, e quando “tra le spine di marzo e le mie dita, / è qui che comincia l’addio”, c’è “una chiesa in lontananza”, quasi a suggerire allo smarrimento dell’istante lo schiudersi di un altro possibile orizzonte. Ecco allora che, come in un rapporto d’amore, il colloquio si fa più diretto, più stringente; dalle manifestazioni della divinità, come grazia o misercordia, si passa al più intimo Tu: “Ho cercato il Tuo volto”, “Ricongiungersi a Te”, e sempre questi passi portano un alleggerimento del peso interiore, una “esile bellezza”, una “insperata quiete “. Ormai l’autore ha imboccato la strada sulla quale il cuore cammina in sintonia; si accosta ai luoghi dove Dio ha chiamato altri a vivere nel Suo nome, ascolta il fruscio delle vesti, i passi pesanti ancora di sonno, che rispondono al richiamo delle campane per la preghiera mattutina. Il ritmo e la misura del verso, non tormentato, non contorto o forzato, esprimono la lentezza e insieme la pulizia da ogni superfluo necessarie per raggiungere, elaborare, assaporare. In un atto di estremo, fiducioso abbandono, ci confida: “Appoggio la testa alla parete / in pietra di una chiesa, /chiudo gli occhi. /Due monaci cantano / il Magnificat: / nel mio corpo, con dolcezza / scende la sera”.
Sembra aver trovato il luogo che meglio di ogni altro lo può contenere, accogliere, “qui, / tra le cose che passano / e non fanno rumore“.

Mirella Vercelli

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