Recensione di Campi d’ostinato amore

Pelagos Letteratura. Rivista diretta da Umberto Piersanti

Umberto Piersanti
Campi d’ostinato amore
La nave di Teseo, 2020

Un patto stabilito altrove chiama la parola del poeta e si fa interprete di un ideale di bellezza classica che da Raffaello passa nei secoli sulle docili, mobili foglie scoperte, troppo scoperte e, qui, nutre quell’incanto dell’anima e dei luoghi tra magia e leggenda, quel canone mitografico che… non si distingue quasi più tra il bello di natura e il bello poetico. È nella permanenza di questa regola dettata altrove il mistero della grandezza della poesia fino alla sua massima elaborazione attraverso un’intima fede del luogo, della memoria, dell’uomo. La percezione segue un’architettura di pensiero lucido e quieto che di lontano guarda il lontano e la memoria traccia con le sue lacrime luminose la via. Le rêveries risalgono il sé come «i cori che vanno eterni/tra la terra e il cielo». Hanno radici «in remoti boschi,» dove «l’assurdo poco oscura/nevi e foglie/non scolora i bei crochi/nei greppi folti,/ma il tuo male/figlio delicato,/quel pianto che non sai/se riso stridulo/che la gola t’afferra/più d’ogni artiglio,/questa bella famiglia/d’erbe e d’animali/fa cupa/e senza senso/e dolorosa».

Lo sguardo amaro e lieve sulla solitudine autistica del figlio Jacopo, sul silenzio attonito dei suoi gesti divorati da quel che non dicono, è il cammino doloroso fragile e frastagliato del genitore verso quelle ferite dell’anima che solo la parola illumina e cura. Il dolore assoluto si fa respiro chiaro che dal profondo restituisce il senso di quiete e di pienezza, la crescita interiore che non spezza il contraddittorio Male/Natura ma crea armonia in una bellezza assoluta. Il presente si fa grazia e recupera tramite l’antico dettato le risonanze e le rispondenze, la qualità originaria delle cose. Si attua la metamorfosi che trasforma la passione profonda per il mondo e per la vita in «amore ostinato» che non sente più alcun peso. E nel mentre si crea l’Unità poetica l’io sente la gioia del creare e la parola si fa sospesa e gentile, quasi lontana dal dolore che narra, lucente e vera. Il dono è una dimensione campestre, magica che abbraccia ogni male e la bellezza chiama come orizzonte aperto al possibile.

Questa speranza dichiarata come passione del possibile, lontana da retaggi religiosi, va più lontano nell’avvenire del sacrificio e del dolore, sopprime la morsa della realtà ed è l’intuizione di qualcosa d’altro che può esserci oltre quel contatto immediato stabilito dall’ignoto tra il divenire e l’io. Lo slancio vitale che ha radici nella storia interiore del poeta è lo stupore sempre vivo per il mondo e le cose in un dialogo senza fine che libera la rêverie dall’egemonia del passato e dell’ignoto, dalla nostalgia senza rimedio e dallo smarrimento che svuota gli orizzonti di vita. In questo libro si respira la luminosità del reale, la bellezza cosmica che ci fa intuire un avvenire più lontano, più ampio, pieno di promesse e il paesaggio urbinate segue l’armonia raffaellesca, intreccia l’aria e il verde variegato delle Cesane alla fiaba che protegge l’io dal reale. Quell’io vede l’avvenire venire verso di sé. Il dono di questa parola non è tanto ridestare la speranza e l’attesa senza il suo dolore ma offrire il presente come grazia che illumina ogni cosa ed è il «largo fiore», lo sfondo rinascimentale di un paesaggio che ci abbraccia. Allora il senso di gratitudine si sente rumoreggiare sui sassi, «tra rovi e spini» sicuro di arrivare al mare. È il discorso fecondo di un’ostinata postura d’amore che non trascura nulla, come per aver scritto secondo un mandato certo, senza smarrimento, sfiorando il tempo e le distanze e ogni cosa che «s’è persa dentro l’aria».

«ai margini del bosco» vi è l’infanzia, la vita primigenia del «Remoto», la «terra antica» in una distanza che non perde nulla ma preserva: «la selva è in una terra/separata,/non sai cosa la cinge/e la protegge,/risplende il ciclamino/per l’eterno,/quel fanciullo per sempre/lì cammina.». In questa magica memoria ci si prepara ad essere felici e si accoglie l’oggi con la sua dialettica e il suo mistero. La parola sfida il tempo e le alte maree, l’infelicità dell’uomo stabilita. Quando finisce il tempo delle illusioni, quando l’uomo è ingannato dalle sue speranze ed è preda di nostalgici ricordi, il presente torna a farci visita e recupera quella bellezza antica della felicità provata che è il lampo di ogni cuore, quel che illumina la linfa segreta e misteriosa che scorre dentro di noi. Allora la vita ci viene a trovare. È come guardare una formica su una pesca o un’ape che scompare nel fiore. È un cumulo di emozioni che vanno oltre la stessa realtà. Così la parola spesso va oltre le intenzioni del poeta ma in questo caso il suo respiro esce così chiaro dal profondo che la bellezza della Natura, si fa ancora una volta «patria poetica» per dar luogo all’armonia del Cosmo, al pathos come totale partecipazione sul piano estetico ed affettivo del mondo. È la pienezza nascosta sotto l’orizzonte del pensiero più alto. Vi è un equilibrio interiore che garantisce al poeta una serenità imperturbata e lo pone nella condizione di esaurire questa intima aspirazione dell’anima.

E cosa sono un’ode, un canto se non un profondo senso di gratitudine che si fa visibile. Solo a pochi è dato di passare il confine che ci tiene legati alla passione più che all’amore ostinato: «e s’arresta il pastore,/dalla sacca tira fuori/il formaggio/e mangia piano,/vola alto il falco,/passa il confine.». La passione come l’attesa dura fino all’atto, all’evento che si realizza ma il desiderio che rende possibile l’arcobaleno delicato e temerario nei nostri cuori è quello slancio primigenio per le cose e per il mondo che rende visibile l’infinito. Quella volontà suprema che tiene alti gli ideali e rovista dentro la qualità delle cose splende in questo libro: «[ … ] tra selve odorose» dove «troppo tempo hai trascorso/e il loro verde sapore/t’è entrato per la gola/giù nel sangue,/una diversa era/ti ha abitato/mentre guardi il Carpegna/annuvolato, passi lento/tra ornelli e ginepri,/da forestiero cammini/dentro il Presente». Passato e presente sono per Umberto Piersanti i mezzi per auscultare l’avvenire con una sensibilità mai stremata, sofferta ma luminosa. La tristezza che ci si attacca addosso quanto più siamo attaccati alle cose del mondo, qui, si fa rugiada «ai margini del bosco» e il silenzio ci fa riconoscere «i polsi di angeli lontani» (Rainer Maria Rilke). Gli angeli rilkiani sono creature in cui la metamorfosi del visibile in invisibile è definitiva mentre noi siamo legati al visibile e, in questo caso, l’io lirico di una coscienza non ancora assoluta, ricerca «ostinato/se qualcosa/dietro ogni metamorfosi/permane».

La realtà è animata da fiori e piante, e «l’erba spagna» (erba medica) e la «bersignana» (uva dagli acini rossastri) e le «bisce inquiete» rinascono dal Silenzio e solo lì possono essere ascoltate. Sono figure immemori, inafferrabili, dolenti e fulgide quanto il mondo, «occhieggianti nel verde» «come il capriolo che s’imbosca», come l’io smarrito «nel folle volo». Ma tutto è un canto senza confine come «un giorno di settembre/tutto chiaro,» e lì si attende «Una strana primavera», «s’attende la fine,/guardare l’erba/o un fiore/senza il male nascosto/dentro i colori. Così anche il «male» de L’Urlo della mente sembra scomparire dentro una matura consapevolezza che accende il mutare delle cose e il mondo del suo chiarore. Si sposta il peso dei secoli che lascia sanguinare la vita nella sua finitudine. Il poeta si avvicina al mistero del dolore senza quella pressione immensa che schiaccia ma con lo sguardo prensile sulle cose del mondo, con lo slancio vitale che accoglie la fragilità, le ombre straziate, il sacrificio e la stanchezza. Nella splendida immagine di Goethe «la speranza, stella cadente, non è facile riuscire a vederla,se i nostri occhi non sono bagnati di lacrime».

Rossella Frollà

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