Un altro tempo di Giovanna Rosadini

Pelagos Letteratura. Rivista diretta da Umberto Piersanti

Recensione a Un altro tempo, di Giovanna Rosadini

A poco più di un decennio dalla pubblicazione di Unità di risveglio, nella serie bianca dell’Einaudi, Giovanna Rosadini torna a ripercorrere le tappe della sua personale vicenda con il recente Un altro tempo, edito da Interno Poesia, che richiama nel titolo un breve e intenso componimento dell’opera precedente.  E non ci meraviglia il ribattere del flusso dei pensieri contro le medesime sponde, consapevoli che un vento come quello dilagato nella vita della poetessa, divelte porte e finestre di casa, non ammetterà il ritorno a una calma perfetta: spirerà sempre da una stanza all’altra una sottile brezza, dondolerà un filo di ragnatela a inanellare i giorni.

Giovanna è vissuta per alcuni mesi in stato di incoscienza in seguito a un malore improvviso, fino al momento in cui, gradualmente, la realtà ha ripreso a farsi strada nel buio e nel silenzio della sua condizione, attirandola col richiamo ineludibile dei suoni, della luce, delle esigenze del suo stesso corpo che reclamava un accudimento del tutto nuovo e particolare.  Da questi “sprazzi di luce che per brevi istanti fanno esistere il mondo” si riavvia il cammino della sua nuova vita; riprende a risuonare dagli incerti, stentati balbettii, la voce che era andata piana e sicura nell’universo della Poesia italiana contemporanea, e che si è ormai riaffermata, più profonda, più accorata.

Non illudiamoci che Giovanna soddisfi col suo racconto la nostra curiosità, svelando particolari su quella dimensione di assenza della coscienza che tanto ci inquieta, lontana com’è da ogni umana capacità di comprensione e immedesimazione: se anche ne conservasse qualche traccia, credo atterrebbe alla sua sfera più intima e ne sarebbe gelosa. Ma ci offre un documento formidabile di come l’attaccamento alla vita e alle sue ragioni d’essere abbiano il potere di indurre la volontà a superare ostacoli imponenti. E gli ostacoli sono infiniti, a iniziare dalla misteriosa forza di attrazione di quel “mondo incantato e sospeso che continua a riassorbirmi e non mi lascia andar via”.  Non è una residenza piacevole, sono “sogni tentacolari e feroci”, una “nebbia impenetrabile della memoria”, un “mistero” “motivato da qualcosa di terribile”, dove è tormento il pensiero dei figli ancora piccoli, la sensazione che nell’universo sconosciuto in cui lei è precipitata anche loro siano in pericolo, come mai realmente staccati dal suo grembo, e abbiano bisogno di ogni sua forza per salvarsi tutti insieme. Poi il dolore, presenza nuova e costante nei sempre più frequenti periodi di lucidità: “ogni parte del corpo duole, le giunture sono arrugginite e fuori uso”. Un dolore strano e apparentemente immotivato come se ogni muscolo, ogni organo avesse deciso all’improvviso di alzare e far sentire la sua voce a una mente ancora incapace di discernimento.

E ancora, il piede sinistro “che si piega quasi fosse di burro” quando tentano di alzarla dal letto, il braccio sinistro che “continuo a perdermi”. Ecco, i primi episodi del risveglio di Giovanna sono una confusa, drammatica esplorazione delle menomazioni conseguite, disperante scoperta di dipendere da macchine tubi  fili per gli atti più elementari come respirare o mangiare; e il ferro che incide la gola, il risucchio dell’aria, il sapore metallico della saliva. Il ritmo dei giorni è scandito dalle pratiche che vengono esercitate sul suo corpo: la puntura di eparina al mattino, la pressione, la saturazione, atti praticati da sconosciuti, per quanto con amorevolezza infinita, su una materia viva che riacquista dignità completa solo nell’istante in cui si riaffaccia la coscienza. Solo a questo punto infatti, l’infermiere Antonio le chiederà il permesso di procedere all’igiene quotidiana: aveva esercitato quella pratica altre volte, ma quella mattina Giovanna non era più una “cosa”, benché viva e calda, era tornata “persona”. E in quanto tale sofferente del peso del pudore violato, del suo corpo divenuto “luogo pubblico”.

Il recupero fisico è un lungo e faticoso processo, fatto di piccoli successi e grandi défaillances; la mente, per quanto ancora annebbiata, non riesce ad accettare “il sentimento di insufficienza” che deriva dalla perdita di abilità indispensabili, e non si rassegna. “Deve pur esistere un modo per tornare indietro… questa persona inerme ed impotente confinata in un letto non posso essere io”. Ma Giovanna non è sola ad affrontare la nuova situazione: le sono stretti intorno tutti i suoi familiari; irrompe “nel tempo sospeso” della clinica la mamma, “fresca e sorridente” nei suoi “colorati vestiti estivi”, a testimoniarle la gioia di un pericolo scampato ben più grave; la guida nella riabilitazione la sorella Vera, la sostengono il fratello, il marito, l’affetto di amiche venute a lei da lontano.  Ma soprattutto le mettono fretta i segni del tempo che scorre sul volto dei figli, l’averli lasciati bambini e ritrovarli cresciuti, il cogliere dai loro occhi la luce del sole del mare che vengono poi a riversare nella sua stanza dove tutto è immobile; le mette fretta il futuro che li reclama e il desiderio infinito di non essere di ostacolo al loro volo con la sua malattia. “Il valore della vita comunque e nonostante”: Giovanna trae dalle riserve più profonde, più radicate lo sprone a superare le difficoltà. Per una mente lucida e allenata al pensiero complesso come la sua sono soprattutto motivo di ansia le carenze cognitive: nella diagnosi del suo caso si parla di “eminegligenza” e “discalculia”. Una metà del corpo, la sinistra, viene ignorata dal cervello e non stimolata ai movimenti, ma soffre anche di difficoltà nella lettura e nella comprensione dei testi, nel ricordare numeri e date, nel recitare le tabelline.

“Un insopprimibile senso di colpa e di vergogna” è il peso che si aggiunge alle obiettive difficoltà fisiche e gestuali, ma è anche la molla che la induce a dare tutta sé stessa perché la crisi sia il più transitoria possibile. Giovanna ha terrore di quelle parole da cui “per un inciampo del caso” si sente improvvisamente definita: “insufficiente, inadeguata, da riabilitare.” E riabilitazione diventa ben presto una parola che le genera “fastidio e insofferenza”.  I piccoli ma continui e definitivi progressi che consegue marcano sempre più la distanza tra lei e gli altri pazienti ricoverati nella clinica, per molti dei quali purtroppo non si prevedono margini di recupero. A questo punto dell’evoluzione del suo stato Giovanna può guardarsi intorno, prestare orecchio ai “lamenti di quell’umanità smarrita e dolente” di cui ormai fa parte ma, sembra, con maggiore fortuna degli altri. Una realtà che non immaginava sarebbe diventata parte integrante della sua vita quando, negli anni ancora inconsapevoli, aveva visitato quella stessa clinica, invitata dagli amici che la dirigono. Ora constata come la malattia renda le persone grottesche, ridicole nel dire e nel fare, nel non ricordare, se non ricondotte al contesto; appiattite nelle elementari esigenze della sopravvivenza, col loro carico di “deformità, fluidi e materiali corporei” involontariamente ostentati, “odori e rumori spesso insopportabili”.  E sente nascere “un sentimento di fratellanza mai avuto”: lei ora sa, ha provato, prova tutt’ora, nonostante i progressi, l’angoscia di non poter prevedere fino a che punto le stimmate del male resteranno impresse nella sua carne e nella sua intelligenza.

Ma il flusso della vita è tornato a scorrere lentamente, le ripropone sensazioni sopite che riaffiorano e rassicurano, consolano: il gusto di riassaporare il buon cibo e il buon vino, le poesie di Dennis Nurkse che stava traducendo prima dell’incidente. Un giorno gli amici la accompagnano al mare e la sua convalescenza sfibrata riassapora la carezza leggera del sole; la canzone delle onde le restituisce brani del ritmo consueto, quello giusto per provare a lasciarsi alle spalle l’esperienza della lunga degenza e dei giorni peggiori. E una sera, seduta sulle scale della clinica in compagnia di un’amica, “una stupefacente nuvola rosa pennellata nella vastità del cielo”: è l’ultimo brano dell’opera, e credo che il volume non si sarebbe potuto concludere in nessun altro modo, perché la fine è un enigma per Giovanna stessa, ma quella sfumatura di rosa, al tramonto di una fase della vita, è la speranza nella fase nuova che si apre, è  sentire il cuore tornato forte abbastanza e aperto alle nuove possibilità che il destino non ha voluto negare.  Attraverso la sofferenza Giovanna ha imparato la “gratitudine” per “doni” che forse prima non pensava tali, o forse dovuti, come capita a tutti, abituati a troppo dare per scontato. L’esperienza che ci ha voluto narrare è il paradigma di una lenta risalita verso una luce che non ha più il bagliore accecante della fiammata ma la soffusione pacata di una nuova consapevolezza acquisita nel dolore e con coraggio.

Tutto questo ci viene trasmesso col linguaggio estremamente misurato e pulito di chi mostra di aver ormai superato il soverchio di emozioni e paure nell’imminenza dell’evento: la padronanza emotiva dell’autrice è tornata efficace nel governare la materia del suo dire e la vena della poesia regge ogni pagina anche se manca la classica scansione metrica. Non troveremo in questo volume rime o a capo per definire i versi, ma un poeta non dimentica mai di esser poeta, anche quando decide di scrivere in prosa: per questo credo che la prosa di un poeta si riconosca sempre.          Ogni sguardo che Giovanna volge ai suoi giorni passati è uno sguardo di poesia, nell’attenzione alle sfumature, nella sensibilità con cui sono affrontati i sentimenti, suoi o dei compagni di viaggio, medici e pazienti compresi, nell’abito di universalità che riesce a cucire intorno a una vicenda strettamente personale. Questo libro è un dono prezioso perché ciascuno è chiamato prima o poi a fare i conti con limitazioni di qualche genere nella propria vita, a prendere bene le misure dell’ostacolo piombato a oscurargli l’orizzonte, altro non fosse che il castigo di invecchiare. Dallo sperdimento della minorazione, è un invito a puntare occhi fermi sulla linea di confine che ci rinserra in uno spazio sempre più ristretto, a spalancare le finestre della mente e accettare che il fumo dell’imprevisto entri a intorbidarci l’aria, perché anche di questo versante ripido è fatta la nostra umanità, un versante su cui lo sguardo esita istintivamente ad affacciarsi ma che pure va affrontato, con tutta la dignità che ciascuno può raccogliere dentro di sé.

Mirella Vercelli

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