Per una lettura “a ritroso” dell’Isola dei topi di Alberto Bertoni

Pelagos Letteratura. Rivista diretta da Umberto Piersanti

Per una lettura “a ritroso” dell’Isola dei topi di Alberto Bertoni (2021, Einaudi)

Vedere un nuovo titolo, una nuova raccolta di testi di Alberto Bertoni – a ormai sette anni da Traversate (2014, Società editrice fiorentina) e a tre dall’antologia Poesie 1980-2014 (2018, Aragno) – è stata per me un’emozione facile, ben presto tramutatasi in entusiasmo. Ho acquistato e letto quasi subito L’isola dei topi, letteralmente divorandolo in pochi giorni, complice anche il fatto che fossi appena uscito da una lettura che si è rivelata per me veramente estenuante, À rebours di Huysmans. Ripercorrendo ancora adesso il testo, tenendolo tra le mani, sfogliando le pagine che strabordano di segni, punti esclamativi e piccoli appunti, riesco forse a isolare qualche filone, aggrapparmi a qualche idea sparsa qua e là in questo libro che, pur essendo corposo, mantiene una sua unità, una sua grande coerenza interna.

Subito mi ha folgorato l’idea che possa esserci un’invasione di campo del regno animale/naturale in quello umano, con uno scambio di ruoli decisamente originale e capace di sovvertire quella metafora ricorrente nella storia della letteratura che è l’umanizzazione degli animali. In particolare, nell’ultima sezione, Was war, la continua presenza del topo diventa quasi opprimente, asfissiante, e l’animale passa da correlativo-oggettivo dell’infanzia del poeta (“le pantegane rossicce” che si muovono tra le canne in Passaggio a livello) a simbolo del male assoluto, di tutto ciò che di negativo può esserci (come i topi di Impasse Suez “annusano il disastro dell’uomo” e “ballano […] / sulle onde di ogni / umano naufragio”). Ma tutto ciò avviene con naturalezza. Si dice sempre che i grandi storyteller facciano “accadere” una storia, nascondendo i mezzi del proprio narrare, illudendo così il lettore o fruitore. Questo è quello che avviene in Was war. Tutti i componimenti sono legati da una storia, che è senza dubbio la storia della vita e del vivere del poeta, sempre strettamente aderente alla realtà delle cose, ma che è anche la storia di un simbolo o di una metafora sottoposta a un processo di cambiamento, che modifica dall’interno la propria prospettiva. Indubbiamente un taglio originale, che non può lasciare indifferenti, anche emotivamente.

Brindisi e dediche, conviviale già dal titolo, è forse la sezione più leggera dell’intero libro, in cui l’indagine metafisica sembra quasi prendersi una pausa, per approfondire certi lapsus da condividere, in piena sincerità, con amici e poeti. Vengono in mente ora la lirica greca arcaica con la sua dimensione simposiale, ora anche il cosiddetto “ultimo” Montale, con l’ironia amara e disincantata di Satura o del Quaderno. Si tratta di un passaggio molto variegato, in cui si passa dalla “lirica” di un testo come In morte di Ezio Raimondi al “divertissement”, in realtà cupo, di Ad Auschwitz… Ma è proprio in questa sezione che emerge al meglio tutta quella colloquialità che, in un certo qual modo, ha da sempre caratterizzato la poesia di Bertoni, già a partire da Lettere stagionali (1996, Book). Avvistamenti è forse la sezione più complessa, in cui tematiche importanti, come memoria e morte, trovano ampi spazi, e si realizzano al meglio nel duetto “sepolcrale” di Verghina e Una tomba etrusca, senz’ombra di dubbio uno degli snodi più interessanti del libro, in cui il rapporto tra passato e presente, tra morte e vita (o non-morte) si concretizza nella constatazione che le cose cambiano, che l’uomo è inserito in un continuo fluire (“la nostra stasi non è riposo eterno / solo un mezzo pensiero di calcare e gesso, / il modo come finiremo”).

Adorabile, quasi da idillio, seppur con le sue luci e ombre, la Modena onnipresente in Milieu, nelle sue situazioni particolari, ma eterne, mitiche, acroniche. Forse è vero quanto disse una volta, durante un’intervista, il regista Nanni Moretti, commentando uno dei suoi primi film, ovvero che più si va nel particolare, più alla fine c’è possibilità di essere universali. Così la “piccola città” di gucciniana memoria diviene scenografia permanente per le prove generali di umanità, per le ormai solite corse intorno al senso delle cose. In Case molto spazio hanno gli animali: gatti, insetti, cavalli. Ma anche gli oggetti, le cose, “essenze del nulla, del non / essere che saremo / presto”, vengono investite di un’importanza che va ben oltre la limitata esperienza della vita umana (“materie e tracce / tutto sommato umane”). Gli oggetti, i “vecchi giochi” della bellissima poesia che fa da copertina al libro, diventano prime e ultime prove di un passaggio sulla terra, in prospettiva di un’indagine che si compirà in un futuro non ben definito, ma comunque oltre l’apparenza e in prospettiva senza dubbio di quel bilancio esistenziale che, prima o poi, arriverà – non solo per l’uomo, o per il poeta, ma per l’umanità intera.

La prima sezione del libro, Alberi e bestie, è pur sempre il punto di partenza. Alcuni testi rimangono impressi indissolubilmente, come l’incipit di Metamorfosi oppure Profezia, che, ancora con un sapiente uso dell’ironia e un ritmo quasi ammaliante delle parole e dei versi, fa perdere il lettore in un quadretto in realtà catastrofico (“Tieni conto che nel giro di un secolo / avremo il mare a Modena”), ma tutto sommato distaccato, incantevole (“perché il silenzio non è bianco / fra Ghirlandina e via Lanfranco / quando la pioggia oggi scivola sul marmo / come frusta di vento e malattia”). Così, fin da subito, Bertoni chiede al lettore un silenzio spogliato di ogni sua retorica – cattura l’attenzione. Ed è un crescendo, via via che scorrono le pagine, fino alla fine, fino alla breve prosa finale, che quasi ci ricorda con Pirandello che “la vita non conclude” e lascia il lettore a bocca aperta, desideroso di sapere qualche cosa di più, proiettandolo di nuovo nelle strade di una Modena adesso invasa da topi e afflitta da un contagio “ancora privo di orizzonte o di utopia”. D’altronde il passaggio dalla Modena delle prime tre sezioni alla Parigi degli ultimi testi fa ipotizzare una “topizzazione” in espansione a macchia d’olio, che relega la speranza a quei piccoli e rari “miracoli” quotidiani che emergono dal grigiore diffuso. L’isola dei topi è una lettura che tocca e approfondisce diversi aspetti della vita quotidiana, mescolandoli ai quotidiani pensieri di chi ha il coraggio di porsi domande, di cercare connessioni tra le cose del mondo e di indagarne il senso. Ho scelto di proporre una lettura “à rebours” proprio perché il libro mi è sembrato a doppio senso di marcia. Mi è sembrato che i testi offrissero sempre molteplici possibilità, a livello ritmico-metrico e a livello semantico, quindi a livello strutturale. L’invito, implicito non solo in queste poesie, ma in tutta la poesia, è quello di guardare il mondo, concretizzato nei suoi oggetti e nelle esperienze della vita, sempre da un nuovo, inedito punto di vista.

Federico Carrera

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