Su Opera Incerta di Anna Maria Curci

La silloge di Anna Maria Curci dal titolo Opera incerta (L’Arcolaio, 2020) prende il nome, come ci informa l’autrice stessa nella prefazione, da un termine architettonico: l’opus incertum dei Romani, in cui le pietre disuguali poste l’una sull’altra, senza la preventiva squadratura di quelle che andavano a formare l’opus reticolatum, davano vita, nonostante la loro irregolarità, a mura ugualmente solide. Curci spiega tale scelta con la necessità di costruire una solida opera poetica con liriche eterogenee, composte in un arco temporale abbastanza ampio (dal 2008 al 2019). È una scelta che opera in modo diametralmente opposto alla silloge precedente, Nei giorni per versi (Arcipelago Itaca 2019), nella quale prevaleva l’uniformità metrica delle quartine di endecasillabi. In Opera incerta, al contrario, le scelte metriche sono variegate ed eterogenee, quasi a voler rappresentare, anche da questo punto di vista, la mancanza di certezze che dovrebbe dominare la raccolta.

A dispetto di tale proclamata incertezza, a nostro avviso, nella silloge si possono al contrario identificare alcuni temi ricorrenti – e certi: il confronto con la poesia altrui, nato non solo dalle appassionate letture, ma anche dalla sua lunga e costante opera di traduttrice; l’attività di docente di Lingua e Letteratura tedesca in un liceo della capitale, che l’ha portata a condividere esperienze fondanti e significative con i suoi alunni; gli affetti familiari, rivissuti e raccontati con penna lieve, delicata e commossa. Su tutto prevale, onnipresente, il ricordo. Non a caso, una delle sezioni dell’opera porta il titolo di Mnemosyne ed è proprio da questa sezione, che regge tutto l’opus presunto incertum, che intendiamo presentare alcune liriche:

2 agosto 2015

E oggi e sempre ero lì, nello spazio abolito

di fronte all’orologio, all’ora fissa,

domenica d’agosto, ma era sabato

allora, nel millenovecentottanta.

La sera, gola polvere macerie,

non ho detto a mio zio, sì, il ferroviere:

ricordo la paura e gli anni, trentacinque.

Viaggiavi al tempo lungo quel percorso

e mi portavi i rotocalchi sparsi

dai turisti tedeschi sui sedili.

Non gli ho detto: l’angoscia

per te, per gli altri, mi è compagna

(“tu non conosci il sud” mi nutrì

e il dannato ritegno all’espansione).

Ecco affacciarsi al presente, grazie a Mnemosyne, l’attentato di Bologna, uno zio ferroviere, una nipote che ricorda. Davanti all’orologio immobile per sempre, cristallizzato al momento dello schianto, Curci rievoca l’angoscia provata nell’apprendere le prime notizie della strage, le tragiche immagini al telegiornale, la paura che anche lo zio, allora in servizio su quella tratta, potesse essere stato coinvolto nella carneficina. Attraverso le sue parole, rivediamo anche noi le ambulanze che facevano la spola, la gente che scavava a mani nude, l’autobus 37, carico di morti. Lo strazio personale si incastra adesso, come una tessera di maligno puzzle, allo strazio collettivo di allora.

Qualche pagina prima, grazie alla potenza del ricordo, spicca lo scarno e proprio per questo ancora più terribile j’accuse di una neonata trucidata dalla furia nazista:

Anna a Sant’Anna

(Sant’Anna di Stazzema, 12 agosto 1944)

Son morta a venti giorni.

Chi mi uccise urla ancora.

Voi che vivete ignari

non mi dimenticate.

Un breve epitaffio, che sembra coniugare L’Antologia di Spoon River e Se questo è un uomo: le letture di Curci, rivissute con materna dolcezza per farne un forte atto di accusa contro ogni violenza, nel nome del ricordo, per far parlare chi non ha mai potuto farlo.
Lo strazio innocente arriva a Curci anche dalle testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah, ascoltate durante un viaggio sul “treno della memoria” da lei intrapreso con gli alunni del liceo statale di Roma in cui insegna:

Birkenau, 24 ottobre 2012

Il vento non serpeggia, il vento attizza
voci ringhianti e pastori tedeschi.

La voce ferma e tremante di Sami
non pronuncia il nome, ma “links!” e “rechts!”,
spartiti per spiccare corpi e storie.

Al crematorio due, al lato opposto
del suo “Sonderkommando”, il suo ricordo:
dov’era, Shlomo, ai giorni, “Shekinah”?

Di fronte alla baracca dei bambini
Andra e Tatiana parlano di Sergio,
del passo avanti e l’orrore di Amburgo.

Non sediamo sui fiumi a Babilonia,
ma il nostro pianto è in piedi e scuote il vento.

Sami Modiano, Shlomo Venezia, Andra e Tatiana Bucci danno voce ai loro ricordi affinché nessuna vittima sia dimenticata. Particolarmente straziante l’accenno al piccolo Sergio, cuginetto delle Bucci, che nell’ansia di rivedere le mamma si autocandidò agli esperimenti mortali della casa-lager di Amburgo, dove fu torturato a morte a soli sei anni. Solenne e biblica la chiusa, in cui il vento iniziale continua a serpeggiare tra i presenti, unendo in un simbolico abbraccio i vivi e i morti. Nell’incertezza della vita, nei suoi giorni spesso angosciosi e bui – sembra dirci l’autrice – solo il ricordo resta, ed è opera certa.

Paola Deplano

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