Recensione di 64 sonetti di Nicola Bultrini

L’arte e l’eterno

Con una piacevole e particolare introduzione in versi, David Riondino apre la recente raccolta di Nicola Bultrini dal titolo 64 sonetti (ed. Fuorilinea, 2021). A mo’ di ballata, il noto critico paragona il sonetto ad un bellissimo destriero difficile da domare e da condurre e di come l’autore sia riuscito nell’intento, rinunciando a cavalcarlo, per guidarlo, con grande maestria, a mano: “Vanno insieme, sonetto e cavaliere/ fin quando canti il gallo, / meditabondi, e come puoi vedere/va a piedi anche il cavallo.”

Il sonetto, ossia piccolo suono, deriva dal trobadorico termine sonet: testo e musica (sonet e motz) nella lirica provenzale erano, infatti, inscindibili, in quanto destinati alla recitazione e al canto, ma non alla lettura.

Quale forma poetica onnipresente nella letteratura italiana, dal Novecento in poi, con il dilagare della metrica libera, è entrato in crisi, ma la sua persistenza, anche se in forme non canoniche, è rimasta presente in moltissimi poeti. Dagli anni ’80 del secolo scorso, inoltre, si è accentuato l’interesse per il suo studio e tra i diversi autori che ne hanno fatto ricorso in questo periodo vogliamo ricordare Andrea Zanzotto, Giovanni Raboni, Patrizia Valduga. Naturalmente, nella poetica d’oggi, la scelta dell’utilizzo di un preciso schema metrico chiuso deve rispondere ad un chiaro progetto, avendo quest’ultimo assunto una propria rilevanza.
Nel libro di Nicola Bultrini, il sonetto è il protagonista assoluto, in quanto la sua struttura richiama un microorganismo musicale e l’autore ritiene che la vera poesia debba essere essenzialmente canto, armonia, nascere, quindi, dalla forza musicale di ogni singola parola e dal potere evocativo dei versi nel loro complesso.

Il poiéin, secondo il Nostro, è un atto profondamente meditativo e deve scaturire senza infingimenti e sgorgare da una necessità irrinunciabile in un lento processo di interiorizzazione ed ha bisogno di silenzi, di tempi lunghi, perché, come lui stesso afferma, è un distillato della vita stessa. Una dimensione contemplativa, quindi, fin dalla prima lirica del libro, avvolge il lettore, quasi entrasse in una silenziosa cattedrale, dalle alte volte, e ne percepisse il segreto respiro orante. La raccolta è preceduta, inoltre, da un passo del Protovangelo di Giacomo, in cui tutta la natura, compresi gli uomini, quasi per incantesimo, vengono proiettati in una dimensione di sospensione fuori dal reale, nel momento in cui Giuseppe giunge alla grotta. La poetica di Bultriniana vibra d’una profonda religiosità, che pervade ogni aspetto dell’esistenza e del creato; nel trentanovesimo sonetto scrive il poeta: “Allora credo d’aver capito/ che c’è nelle cose della vita/ un’armonia che tende all’infinito/che sembra vento, ma non è mai sopita.” Il poeta marchigiano considera la vita stessa non “un solo andare, / ma pure far prova della fede, // che non è poi solo speranza,” ma “vedere”, “ascoltare”, “credere”.

La ricerca costante delle ragioni ultime dell’esistenza e le rivelazioni, avvolte quasi in un silenzio mistico, fanno del Nostro autore un testimone d’un altrove assoluto, sconosciuto alla ragione umana. Scrive, sottolineando questo concetto, Valentina Colonna nell’intervista a lei rilasciata dall’autore il 16 maggio del 2018 e pubblicata sulla rivista Unione Monregalese: “il poeta è in grado di attraversare l’uomo e la vita con la forza della fede e della contemplazione. Li afferma, li ama, in un ‹‹pensare profondissimo›› dove l’immersione e l’abbandono della vita nell’abisso si colorano di assoluto”. La dimensione religiosa schiude ad una visione ottimistica dell’esistenza, nonostante la presenza nell’umanità del dolore e del male. San Josè Maria Escriva de Balanguer fondatore dell’Opus Dei, in Forgi, sottolineava che l’ottimismo affonda le sue radici nella coscienza della libertà e nella sicurezza del potere della grazia, che dona la speranza. Il XXXIV sonetto della raccolta recita: “i sensi dati a volte sono deboli/ e ci affidiamo ai radiogiornali/ credendo ogni messaggio verità. //Ma basta osservare i girasoli/ che appettano arie più normali/ per cogliere la vita e la beltà”. Ancora più illuminante, per questo aspetto, è un’altra lirica: “Viviamo sospesi in equilibrio/ sul vuoto temendo di cadere/ eppure sicuri e certi di volare. // E l’anima che morde lo squilibrio/ dissolve nebbie e fa vedere/ che dall’immenso ci si può salvare.” L’anima, quindi, ha la forza salvifica di illuminare in nostro cammino, oltre l’indecifrabile, che ci circonda. Ed in antitesi al famoso mal di vivere montaliano, l’autore, in un altro sonetto, ci ricorda che nella vita c’è sempre una strada aperta, anche se non si sa decidere quale sia.

L’elaborazione di una poesia, come già enunciato, è un processo lungo e laborioso per Bultrini, in quanto non può mai scendere a compromessi con le parole e deve mettere a nudo le esperienze reali ed interiori. Così anche la lettura, come la preghiera, sul fare della sera, diviene per lui un atto di profonda meditazione, che segue il ritmo del respiro stesso: “Mi piace leggere come una preghiera/ soffiando l’aria a mezza voce/ nel silenzio che si posa a sera/ e l’ombra alle persiane è un’altra luce.” ed oltre, sempre nel sonetto XXXI: “A mani giunte va lo sguardo altrove/ pensandosi a pensare come vuole/ il ritmo del respiro naturale”.

Anche la memoria è un momento cardine della poetica bultriniana, che si arricchisce della sua adolescenza fatta di “anni di pazienti attese/ seguite al brontolio dei giorni”. Nel libro in una dimensione atemporale si susseguono immagini di villeggiature estive, interrotte dal richiamo “feriale della città”. Ed il viaggio per mare appare nei versi dell’autore come momento essenziale della vacanza: momento di riflessione, di rappresentazione allegorica dell’esistenza umana, con i suoi turbamenti, i suoi dubbi, la sua spasmodica ricerca. Scriveva Pablo Neruda: “Ho bisogno del mare perché mi insegna: /non so se musica o coscienza”, anche per il poeta marchigiano il viaggio è fonte estatica di riflessione e di conoscenza ed ha gli echi di un Nostos. Risuona così la seconda quartina del XXI sonetto: “La luna a fine giorno fa una luce/ ampia nell’oscurità del mare/ed il bagliore vago mi conduce/ a un posto come casa e poi tornare”.

La passione per l’arte e per la vita, alla luce d’una profonda riflessione estetica e religiosa, dona al libro di Nicola Bultrini la forza e la profondità di una lotta contro tutto ciò che, come ricorda Enzo Bianchi, allontana l’uomo dalla sua umanità e dal divino. L’ultima terzina del LVI sonetto termina, infatti, con questi versi: “Salva la mia vita al mondo Dio/ asciuga le paure sulla fronte/ fortifica l’amore e quel che sento”.

Raffaella Bettiol

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