Recensione di Prima di nascere di Claudio Damiani

di Rossella Frollà

Claudio Damiani
Prima di nascere
Fazi Editore, 2022

La nostra immaginazione riproduce le cose così come le ha percepite con i sensi e quindi appartiene ancora al mondo della conoscenza sensibile, quella dei cinque sensi, della fantasia, della memoria della capacità intellettuale, estimativa. Il poeta Damiani, in questo caso, vuole entrare più profondamente nell’uomo interiore. Il suo desiderio è lo stesso che muove ogni uomo da sempre, vuole cogliere le verità eterne, verità immutabili, verità necessarie, nel profondo del proprio essere. Nel mondo dell’interiorità la verità è quella che appartiene a un altro ordine, non a quello sensibile. La mente si accorge di tali verità solo quando abbandona i sensi sia esteriori che interiori e si abbandona al profondo del proprio essere che detta questa necessità. E questa necessità abita la parola di Damiani.

Il poeta vuole capire e afferrare l’insieme. Srotola l’invisibile trama dell’esistere intrecciata da grovigli e da pertugi libratori, dall’atto sacrificale dell’uomo verso la morte, del suo dolore che sono reali e si annunciano immediatamente da sé. La parola a tratti amara e inquieta, ma sempre luminosa, sollecita le domande in un gioco che lavora in profondità per riflettere su ciò che percepiamo abitualmente ma che ci è sfuggito. Tutto si gioca ai confini della nascita e della morte. Qui il poeta è pronto a fissare i punti cardinali dei contraddittori con l’equazione: vita/morte, bellezza/mistero. L’abbandono a ciò che ha generato l’impronta è il segno dell’atto del camminare sui passi di un intimo ritorno. Come quando si sente una cosa tutto il giorno soprappensiero. Il luogo è l’Amore per eccellenza che ha le sue eterne risonanze nella Natura e nella sua infinita bellezza, nell’ordine necessario di ogni sua cosa. Il rimbombo è il dolore, l’amara realtà della fine di cui il poeta ci riferisce le accurate scanalature e porta a compimento bellezza e verità senza protezione con la virtù delicata di un bambino che si rende uguale a ogni cosa e bisognoso di fronte alla vita: «Quando ero piccolo, quatto-cinque anni,/mi immaginavo prima di nascere/come sospeso nel cielo [ … ] mi sembrava incredibile non essere esistito prima/e mi sembrava incredibile pure di essere esistito,».

Il dialogo con le domande non viene lasciato come una vecchia giacca su un posto qualsiasi ma si apre come cielo terso di quelle giornate invernali in cui si conquistano le vie delle risposte anche quando le deviazioni portano nel posto amato, abituale e perfino più legittimato. Allora il luogo delle risposte che è nell’aria dentro le nubi, sopra l’acqua di Fraturno, non può essere considerato una sorpresa o un colpo di fortuna, è un luogo primigenio, un luogo di un viaggio precedente, quello dell’infanzia. In nome di questo luogo amato il poeta s’inchina all’Ordine. Si sente sospeso nel cielo e nell’aria, dentro l’istante come punto di memoria che genera da sempre domande alle quali non si sa resistere né si sa rispondere. E questo punto ci mantiene vivi attraverso la sua perdita, in un vuoto che ci trattiene o come sue sentinelle a difesa del posto occupato. È lo spazio che segna il vuoto e ci permette con gli occhi di coltivare il paesaggio, di vederlo nella sua discontinuità che prende forza in direzione della prossima cosa. Allora l’istante sacrificato riproduce l’assenza ma il ricordo la chiama e le va incontro. Ne trae un entusiasmo nuovo, una regola d’amore invisibile, piena di tutte le forze e le forme che dal sé risalgono la coscienza del poeta mentre la parola precipita fin sulla soglia di una felicità mai provata prima a cercare il pertugio liberatorio delle risposte. Si crea l’unità poetica e l’armonia del contraddittorio. Le rêverie come in un sogno fanciullo si fanno farfalle: « … poi ritornavano le farfalle azzurre/e tutte le altre e si diradavano,/si vedeva che andavano in un luogo/come un centro di raccolta/forse andavano a riposare, a mangiare, non so,/e io restavo solo/in un cielo completamente vuoto,/completamente solo.».

La solitudine provata da bambino si estende all’universo intero come crudele abbandono, e il primo sguardo sulla realtà intuisce il sacrificio: «Sì quella lì è la farfallina azzurra./Vedi, noi le prendevamo con le dita /e ci restava sulle dita una polvere d’oro/che era la loro vita./Quella polvere, se tu strofinavi/per mandarla via/diventava nera/e non andava via.» È dunque questo un rapporto di forze bilanciate, l’uomo in bilico su un «trapezio» a due facce: quella che dà certezze di un altrove e quella che sprigiona l’attesa e l’angoscia del morire in totale perdita. In ogni caso esiste la possibilità di aggirare l’ostacolo e di immaginare, di fare ipotesi, di rendere possibile catturare l’ignoto. La parola ha bisogno di miniaturizzare il morire con un salto nel tempo: «… allora morire vorrà dire/fare un salto nella comunità/lasciare quel corpo a cui ci eravamo attaccati/e quel tempo, e saltare nella vastità/del futuro, e vedere forse anche il passato/ … /tutto intero, come veramente è stato.». L’istante e lo stupore per restare hanno bisogno dello scopo, non possono reggere l’attesa del nulla. «si è qui in attesa che il tempo passi/poi finirà e sarà come staccare/l’interruttore.».

E dunque lo scopo è provocare un mandorlo fiorito, è provocare il vuoto e le cose per vedere se vanno d’accordo. Ogni domanda e ogni risposta sembrano trarre beneficio dal vuoto che ha un’amicizia primigenia con l’essere. Sembra che il poeta abbia bisogno di un attrito per lenire l’ambivalenza delle cose e l’interruzione che procura l’ignoto. La parola si fa lacrima luminosa e anche se il vuoto è sempre accanto a una cosa ha la capacità di mettere paura, di dilatare le ombre, di generare nuove domande. E intanto il luogo è fermo in attesa del nostro arrivo, ma siamo noi a decidere? – Si chiede il poeta: «Se fossimo noi che abbiamo scelto di vivere/e di morire, come se qualcuno/ci avesse mandato in missione, estratti a sorte, o se ci fossimo fatti avanti/avessimo fatto un passo, un piccolo passo .. ». Quel passo sa di essere dentro l’abbandono, senza sostegno. Eppure gli viene incontro il luogo come per amore, «un piccolo osservatorio» da dove auscultare la qualità originaria delle cose e «la Natura ogni giorno/era diversa, e non la Storia.». Il luogo accoglie e pacifica, quella ricerca senza fine degli stati d’animo, dei sentimenti e del sentire in noi e negli altri la fragilità che ci accompagna. Le interiorità ferite dalle ambigue significazioni dell’esistere attendono la comprensione del mistero che è in noi. Scendono vicinanze e lontananze impreviste come scintilla di comunione della natura con l’uomo che non si spegne facilmente né si possono nascondere all’occhio le forme misurabili di tanta bellezza che il creato offre. Pur se le attese di un tempo che sta per scadere tornano inquiete e dolorose chiedendo a gran voce il senso del vissuto, la conoscenza dell’anima si allarga nelle sue ambivalenze. L’attesa di fronte a una massa sconosciuta non si lascia inghiottire, essa è sospesa e fugge dall’impotenza, dal fato; fugge tenendo per mano la speranza che è la passione del possibile, quando l’avvenire ci viene incontro pieno di tante bellezze: «in un piccolo tondo, e su le nubi aeree/lente posavano e tutto misuravano/tutto vedevano, tutto ricordavano.». Così anche la foglia nel suo diventare terreno sopprime la morsa dell’attesa e stabilisce un contatto immediato tra il divenire e l’io. Gli andamenti della speranza nelle esperienze delle domande sono utili a scortare le incertezze e le angosce del poeta, riaprono un dialogo senza fine col mondo e le cose. La comunione con i frammenti del passato evita l’inaridirsi dell’avvenire ed è la ricerca di un approdo che dia un senso alla vita. La domanda imbocca le stanze di un altrove possibile dove non si è e non si sente il peso di quello che si è e di quello che non si è fatto. La fuga più certa è vivere «come un ciottolo che la corrente trascina,/e che niente mi salvi.».

L’esperienza della vulnerabilità si accorge di se stessa e della sua solitudine e si difende con le immagini più belle: «Nella Grotta di San Cerbone/arrivi e sei accolto subito/la porta è aperta anzi non c’è porta/la grotta è piccola ma c’è spazio quanto vuoi/non ci sono arredi ma non manca niente/[ … ]non hai nessun desiderio/non vorresti andartene mai/vorresti stare lì per sempre.». L’istante sembra essere ancora il punto stabilito dall’ordine che incalza sotto il cielo di una natura animata. L’esperienza di un tutt’uno dell’essere con questo mondo panico sembra l’intuizione di un ordine che tutto stabilisce e tutto abbraccia, dove «tutto lascia una traccia indelebile,/niente è possibile cancellare». Il dopo la morte è «un mistero così fitto» che possono esserci solo «speranze» e qualche cosa d’altro, di molto più grande: «O avremo forse nostalgia/[ … ] di questo nostro lasciarci andare/alla corrente, sperando solo nel Signore?». Partecipare a questo ordine, a questo equilibrio dato, dove il presente si compie dell’istante precedente, significa ascoltare una melodia che suona la sorte di ciascuno e le note appaiono e scompaiono e danno senso a quelle future. Il nostro essere «ostie sacrificali», il nostro dolore sono misteriosamente compensati «anche da tanto amore». La nostra abitudine a cadere nel tempo di cui non sappiamo nulla, che trattiene le nostre azioni e sembra essere senza fondo, è l’inganno di una speranza, di un amor proprio che ci portiamo dentro e ci dà lo slancio. C’era forse anche lui con noi prima di nascere e anche la Provvidenza che ci scorta nella vita pur se tuttavia non impedisce la morte. Il poeta non accetta questo sacrificio: «Costretti a nascere, costretti a morire», gli uomini sono «eroi», «i figli guardano i padri/[ … ] è come se li rimproverassero/di averli fatti nascere.». Se non ci fosse una vita dopo la morte sicuramente questa sarebbe «una carognata», ma sarebbe anche un dono da poter spendere in tutta libertà. E se negli occhi di una bambina «si rispecchia la bellezza/di tutto l’universo» allora c’è un Amore infinito che non può concepire senza senso né abbandonarci in eterno senza senso. Quel che mi è chiaro di questa raccolta è che l’Assenza è ancora una «speranza».

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