Lo strano caso del buon samaritano

di Rossella Frollà

Don Dino Pirri
Lo strano caso del buon samaritano.
Il vangelo per buoni, cattivi e buonisti.
Rizzoli, 2021

«Così guarisco ogni giorno e sono liberato. Cammino e vado raccontando semplicemente».

Non so se siano le urgenze dell’incessante lavorio del profondo a voler emergere, ma tornano di fatto in superficie i frutti di una buona coltura dell’anima. Indubbiamente il Dio si fa conoscere attraverso il cammino, la storia personale che Don Dino ci offre, legata alla parabola forse più rivoluzionaria del Vangelo, quella del Buon Samaritano: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.» Un sacerdote e un levita passarono di lì e fecero finta di non vederlo. «Invece un Samaritano (un eretico per quei tempi), che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino, poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in albergo e si prese cura di lui.».

Scrive Don Dino: «Dio si prende cura di me, nella compassione, fino ad assumere la forma della mia vita. Il Vangelo con le sue parabole non solo descrive cosa sia l’amore ma ci invita a capire che esso «non è l’elenco delle cose da fare», un «prontuario». È, dice l’autore, «il racconto del cuore di Dio. È la narrazione dell’agire di Dio e non la classificazione dei nostri doveri.».

Il Vangelo, il libro più rivoluzionario della storia, ci chiede di amare, ma soprattutto di imparare a lasciarci amare dal Dio che dirige i nostri passi e ci cerca ovunque e comunque e ci lascia liberi di cercarlo e di amarlo. E di nuovo Don Dino: «Sono io quell’uomo che scende da Gerusalemme a Gerico, perché non so amare. Rimango ugualmente ferito, mezzo morto, colpito dai briganti, nudo, senza identità. Perché non so amare e non mi sento amato. E sono io quel sacerdote e quel levita. Incapace di colmare il vuoto con la sola religione, né con la legge morale.». Ma poi è in Gesù che il Dio si rivela, nella Croce, e allora: «La felicità è questo amore che mi tocca la vita, senza chiederle niente e riempiendola fino all’orlo.». La felicità è attraversare la realtà nel suo limite, come Dio attraversa i nostri cuori e le nostre fragilità, e noi, continuiamo ad attendere, a desiderare e ad amare.

Il desiderio, blocca la morsa dell’attesa e si fa forza che rende possibile l’infinito, quella potenza che si fa speranza e gratitudine perché tocca la qualità originaria di ogni cosa. Quando la vita non è disponibile al nostro controllo, l’incertezza, la precarietà, il dubbio sono gli elementi che più mettono a rischio la nostra pace. Creano gli «idoli», una felicità parallela al desiderio malato. «Gli idoli chiedono sangue» (Francesco, Udienza generale del 1 agosto 2018), come «L’idolo dei soldi», davanti al quale si sacrifica tutto: affetti, famiglia, noi stessi. «E nulla ti accontenta più. C’è sempre qualcosa che manca. Un senso di vuoto inizia a tormentarti fino a lasciarti credere che la vita non abbia valore e che non ne hai neppure tu.». È un apostolo del Dio, un prete che parla a se stesso e si confida sul quando e sul come delle sue azioni di catechesi e d’amore. Così, quando nelle azioni pastorali più che all’amore e alla misericordia rispondiamo a noi stessi, lo sguardo sulle contraddizioni dell’essere e sulle sue mancanze si fa idolatrico, carico di giudizi e pregiudizi. Avanza in noi l’idolo della perfezione e dell’organizzazione. Questi idoli, scrive Don Dino, «ti succhiano entusiasmo e vita», poiché «non è il dolore che impedisce il cammino, ma la mancanza di senso e di passione.».

Lo slancio «esige la capacità di scegliere e di rispondere personalmente alle sollecitudini della realtà». La vita è una scommessa educativa, l’atto di crescita dell’io che affidiamo alle risonanze dello Spirito, di quel qualcosa di divino che è dentro ciascuno. Quel qualcosa che si fa prossimo e ci accoglie, secondo il patto primigenio col Dio. D’altro canto, l’incertezza, il dubbio, la precarietà, la solitudine, la caduta e poi la gioia di aver superato il limite e di averlo superato ogni volta col suo aiuto, sono una gioia ferita che si fa grata del vino e dell’olio con cui è stata curata. Questa gioia in noi si fa latente e si fa largo nelle scelte di ogni giorno poiché non dipendono da un codice etico definitivamente fissato. Il Vangelo è dunque un «paradigma, il quale, coniugato con la nostra vita, ci permette di interpretarla correttamente».

La parabola più che risposta si fa sempre domanda e confronto vivo, avvenire interlocutorio nella storia. La nostra prontezza sta, dunque, nell’interrogare la nostra vita concreta senza nasconderci nelle tante regole, come fa il dottore della Legge: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna? [… ] E chi è il mio prossimo?». Il fare è conseguenza libera di un dialogo faticoso e affascinante in un mondo dove non esistono la certezza e la stabilità ma «un ospedale da campo» (Papa Francesco). Dove tutto è desiderio e contesa, ma lo è di più per l’apostolo col Dio: desiderio e contesa come tra amanti. Ed è la compassione, l’amore a salvarci nel cammino: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Don Dino ci mette del suo: «La teoria la sai. Adesso mettici la vita! Sporcati le mani! Abbi fede! Rischia!». La fede è un dono e: «Non esiste la fede in teoria. Non esiste la fede per dovere. Non esiste la fede senza l’amore.». È intuizione di un amore immenso non pronunciabile. Una saggezza superiore non ci permette di assecondare il nostro carattere, ma di accettare il limite con la sua provocazione continua. In questo libro Spirito e Parola non finiscono mai di rincorrersi e di incontrarsi.

Vi è una «fanciullesca smania» di cambiare il mondo, di dire a tutti che Dio vuole che lo si ami liberamente, che la nostra «felicità riposa proprio nella sua volontà. Che l’obbedienza è un atto d’amore, che scaturisce dalla libertà e la libertà rafforza.». Il riconoscimento della bellezza originaria di ogni cosa si fa riconoscenza e atto di fede che arriva da solo, si muove da dentro, spontaneo senza obblighi della mente. E allora: «mi fido di Lui più che di me e gli obbedisco; gli chiedo di farmi intuire il suo consiglio, altrimenti sono solo chiacchiere, doveri, coerenze, obblighi. Senza libertà, senza amore.». Tuttavia, mi sento di dire, e credo che Don Dino sia pienamente d’accordo, che queste altre anime dell’amore (doveri, coerenze …) vadano coltivate quotidianamente come nutrimento vivo della nostra vita. È bello quando il sacrificio, il dovere, il servizio a Dio subiscono la loro metamorfosi e si fanno la scelta più amata, la gioia di aderire alla sua volontà e di non sentirne il peso. Uno strano senso di pace ci pervade. E il vuoto che anticipa ogni altra cosa si fa significato, pienezza per ogni altro vuoto. Ho intuito un giorno la Misericordia e quel profondo senso di sentirsi figlia, e tutti gli altri e i miei genitori, fratelli.

Questo credo sia il significato dell’amore che con la vita ci viene a cercare e ci dona le sue regole senza farcele sentire come fardello amaro e intransigente. L’importanza nella vita è il camminare insieme, con tutta la fatica sulle gambe e con l’altro da noi che ci fa sentire «tutta la bellezza della strada, la sorpresa di ogni incontro, lo stupore davanti al quotidiano.». «La vita è camminare insieme nell’incertezza e nella precarietà. Qualunque sia la meta, attraverso molteplici sfumature e dubbi. Finché si può.». «Scivolare verso Gerico, anziché a Gerusalemme, non significa vivere da depravati. Basta essere rassegnati davanti alla vita che scorre. Senza fantasia, senza sogni, senza passione.». E tutte le altre anime del mondo: presenza e nostalgia, desiderio e rimpianto, tenacia e gratitudine, miseria e abbondanza, dubbio e certezza sono la nostra precaria andatura che ci provoca ogni giorno e ci dice che non ci sono luoghi sicuri, e quel che conta è lasciarsi alle spalle noi stessi per abbandonarci a lui e tornare a casa. Salire da Gerico a Gerusalemme.

In questo libro l’urgenza dell’autore è quella di «prendere posizione nella storia» e lo fa abilmente attraverso il Vangelo e le sue parabole più rivoluzionarie. L’io dell’apostolo nella sua piena disponibilità della vita vuole partorirla, lanciarla nel mondo seguendo lo scopo di sempre, la catechesi, verso una platea più ampia. Questo capitale da spendere svela verità nascoste nelle pieghe delle parole e nelle piaghe dell’umanità sofferente. Il linguaggio è semplice, chiaro, lineare e raggiunge gli abissi dell’anima e le altezze del bene con una parola domestica che riferisce l’urgenza per il cristiano di seguire lo Spirito Santo più che i pregiudizi.

Cosa ho imparato leggendolo? Cosa è cambiato in me? È un dono, certamente un pezzo di vita in più, un immergersi nelle profondità dell’esistere da cui non si esce a mani vuote. Vi ho trovato le risonanze del Dio, quel tocco autentico che dà uno scossone alle nostre storie. La parte di Don Dino in questa storia è quella del combattente per il cambiamento. È il pensiero laterale che analizza la parola di Gesù, le sue parabole che attraversano il quotidiano, il contraddittorio con le sue paure e tenerezze, e il male, il dolore, le angosce, i successi, le sconfitte, le cadute. Nella parola di questo autore vi è una tensione appassionata, spontanea verso Colui che ci accoglie sempre e comunque e ci fa sentire unici, ci sostiene e ci cerca. Non ci molla mai. Chi ha incontrato la tenerezza del Dio comprende appieno la bellezza e la catechesi autentica, semplice e al contempo raffinata di questa opera.
Il messaggio è l’amore e la fedeltà a Dio: «La fedeltà è sempre un dono a Dio. La rigidità è una sicurezza per me stesso.» Il nostro cammino è spontaneo quando l’io si fa dimentico di sé e accoglie il mondo così com’è.
Così che possiamo dire al Dio: -Chiamami se ho sete!-.

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