La causa dei giorni di Cinzia Demi

Dopo aver letto d’un fiato l’ultima raccolta poetica di Cinzia Demi, La causa dei giorni, preme sottolineare subito la sua voce inconfondibile, la quale nasce dal verso breve e scattante che solo di quando in quando raggiunge la misura dell’endecasillabo, perlopiù organizzato in strofe altrettanto brevi, dalla rima coadiuvata dall’assonanza, insistita e spesso ravvicinata, talvolta messa in evidenza da una pausa, visiva se non sonora, ottenuta per mezzo di uno spazio interno. Un minimo esempio può essere utile a chiarire meglio. Una celebre clausola montaliana, «chi resta» (si ricordi La Casa dei Doganieri: «Ed io non so chi va e chi resta»), improntata a un ritmo solenne, in questa trascrizione musicale si trasforma, grazie appunto alla rima ribattuta, in un presto rapidissimo: «se chiudi gli occhi / lo vedi il contrasto / tra il fondale e la riva / chi approda e chi resta / non c’è festa nell’andare».

Questa scelta formale è perfettamente coerente con la ricca sostanza della silloge, che è un bilancio dell’esistenza promosso da un ritorno, memoriale prima ancora che fisico, ai luoghi amati dell’infanzia, a quel tratto di costa tirrenica che va dal golfo di Baratti sovrastato dall’antica Populonia al centro storico di Piombino, dal mare con il suo splendore e la sua «innocenza» purificatrice alla campagna che lo circonda: coerente, dicevamo, perché consente una scorrevolezza di affetti e di paesaggi dell’anima per la quale potremmo ricorrere addirittura alla definizione di flusso di coscienza, anche se la materia è molto diversa la quella del monologo di Molly che chiude l’Ulisse.

Il libro è strutturato in sei sezioni precedute da una eponima di un solo testo. Con poche eccezioni, il primo verso di ogni poesia, non raramente in corsivo, funge da titolo: «bisognerà capire cosa ci porta / a credere nei grani   a farne / sabbia di clessidra tra le mani / a non rompere i cristalli dorati / a tornare là dove siamo nati». È qui, nonostante la difficoltà di questo pellegrinaggio a ritroso nel tempo, che il presente può trovare giustificazione nel passato: «e un tempo immobile non / spiega   non glorifica   ma non / rinnega  la causa dei giorni». Tutto si tiene, e per quanto gli avvenimenti possano sembrare dovuti al caso, nel corso della vita finiscono per disporsi prospetticamente in un rapporto di causa ed effetto, per cui un fatto si lega a un altro fatto in una concatenazione inarrestabile. Così in Di madre in figlio il distacco di lui dal luogo dove è nato («lascerai la tua mano / lascerò la tua mano») può essere scandito nelle sue varie tappe che, ripercorse all’indietro, danno l’illusione di una forma di ricongiungimento, benché la separazione sia certificata perfino dal ricordo: «del mio paese ricordo / l’innocenza del mare   mi / sono care le zolle tra i filari / di vite   mi commuove la / chiesa con le panche sul golfo // cosa ricorderai tu / cosa amerai   di questa città».

Siamo in tal modo introdotti alla sezione successiva, Nel nome del mare, che riprende in parte una raccolta già edita nel 2017 e rappresenta il cuore pulsante dell’opera: «raccogliere una scheggia di bucchero // e costruirci un bicchiere / bere un sorso di maestrale […] / magari è così che si cresce // dopo il pane con zucchero e vino / dopo le vendemmie e le rose / quando tutte le cose sfumano / in un sentire lontano»; «non si ama la campagna da giovani / la si subisce come un torto […] // un tempo non sentito / maldigerito   uggioso e molesto / un aroma offeso di rame e di zolfo / un’ingiuria al mare e al sole / del Golfo». La lettura procede veloce, trascinata da questa musica. In A volo radente, quasi un poemetto nel suo andamento narrativo, il desiderio di volare senza averne la capacità della protagonista, innominata, alla fine si realizza ma a prezzo di un processo di morte e trasfigurazione; in Materiale non riciclabile («mai avremmo immaginato / che la vita fosse stata / crudeltà   lucido inganno / materiale da non riciclare / fermo immagine banale / ai piedi della realtà») l’occasione del Natale offre lo spunto per una riflessione su come siamo cambiati in peggio, perdendo i sani e semplici valori di una volta; Quel segno che manca è una sorta di ciclo dei mesi, che delinea, come precisa il sottotitolo febbraio 2020-gennaio 2021, un anno drammatico che tutti ci ha coinvolti, in una situazione di clausura nella quale la salvezza è affidata all’evasione nella vitalità incontenibile della natura; L’ombra delle case, infine, si sofferma sulle abitazioni che si sono succedute nel corso della vita, segnandone indelebilmente le varie fasi con la loro ospitale quotidianità. Dispiace solo non poter citare più a lungo, per rendere ancor meglio percepibile l’onda leggera dei versi che affascina e avvolge.

Davide Puccini

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