La lingua del sorriso di Gabriella Cinti

di Rossella Frollà

Gabriella Cinti
La lingua del sorriso. Poema da viaggio
Prometheus, Milano, 2020

In questo Poema da viaggio l’interesse per l’antropologia culturale e per la mitologia antica si fondono in quell’unità poetica che si fa incantamento del luogo e della parola, manifestazione mitografica e mitopoietica. La parola è suono e il suono è parola, l’uno richiama l’altra e il luogo richiama il mito, il mito la parola antica investita di sacralità. Tutto è sospeso in quel tempo primigenio in cui dèi ed eroi precedono la storia scritta e scaldano di raggi invisibili la tessitura di questa raccolta dove tutto è dato all’intuizione del cuore: simbolo e nuovi luoghi segreti. E il tessere mitico dell’Universo è la metafora di ciò che sta dietro al mondo visibile, quel luogo che è al di là delle cose e le trascende; le sillabe sono esseri viventi che animano quel luogo privilegiato in cui il sé torna ad essere chiaro e «cantano l’infinito le antiche sillabe». La narrazione procede a ripristinare una sorta di condizione perduta e lo slancio è nel risveglio, in quella Guerra di primavera dove l’«epifania di verde solare/stordisce il fiato.» e rimette al suo posto ogni eco mortale.

Il sorriso cavalca il tempo, è luce, «vita rimemorante», tempo immemore delle nostre storie: «L’incontro era già nell’Alto,/tra i confusi primordi dell’essere,/noi indistinti portatori di intento.».  Il simbolo è ancorato all’amore e alla libertà ed è accompagnato alla consapevolezza della propria fragilità, alla conoscenza intuitiva che approda all’inconoscibilità ultima, alla luce per «Poter parlare della luce/inviolato sfarzo celeste.». E, poi, nei tanti modi di essere del Silenzio radicato nella storia interiore di ciascuno, torna il tempo primigenio: «Mi conduci alla memoria Prima/quando, nella primavera del tempo,/ripetevamo la festa dell’alto,/nell’aria ignara senza lacci nemici.». Il narrare dell’occhio è la conclusione dello sguardo del sé e del luogo. Qualcosa ne esce: un confine tra concetti e rêverie libere, il fulgore del destino cifrato nella fatica di vivere, nella lontananza, nei ritorni dove «L’infanzia del miracolo/riemerge intatta/nell’angelo-pavone,». Il guardare è dentro la metafora in cui si riconosce l’accadere dell’animo: «Fuochi invisibili alle svolte/del tempo tracciano la storia,/la rotta disordinata del vivere.». E la parola sfida il «deserto astrale», invoca, «e la chiamata rimbalza/di atomo in atomo,/polvere di voce/che non ti raggiunge.». Ne esce l’emozione muta, quella di un «silenzio ferito» da un «impossibile Accesso». Ecco che l’inconoscibilità ultima si fa Presenza e il desiderio di luce si incarna nella possibilità dell’infinito, dove ha vita «la facilità dello splendore»

Sole e luna, silenzio e segreto, luogo e mito sono i doppi binari di una parola magica e sacra che ispira il linguaggio e rianima il sentire e le cose. Si alternano movimenti estrosi, lievi, vigorosi, lucidi, incantati. Il nucleo ispiratore originario è la luce che domina il ritmo narrativo mentre la luna, l’ombra e il nulla si fanno delicato arpeggio. Il luogo del Silenzio è troppo segreto per rivelare la sua straordinarietà, è immenso e troppo potente da conoscere. È pericoloso e rischioso da investigare e allora la poetessa… , appena si lascia sfiorare: «a bordo del nulla,/dipingo quel lontano soffio,/le convergenze, le frecce/e il ricordo della luce.».

Il passaggio dal Silenzio al nulla non è scortato e si entra in quel nascondimento che spezza o si fa risorsa quando la parola coglie l’istante, il «respiro pronto al volo».

E, così, si fa Primavera: «Nuovo, l’eterno libera/la verticale di luce/in ogni grido d’amore.». Il «Pensiero silenzioso» si fa strada e «il raccolto è già nel seme». La parola è madre che crea e modella le risonanze del sé con le maiuscole che sono lo strumento di ricerca verso l’Alto e le minuscole che scavano sfinite nel «cuore della luce», «dentro l’Abisso», in questa migrazione «mutando linee e percorso ogni volta,/per salti discontinui,/salvo la certezza di farmi luce». E vince questo fare mitopoietico/lunare che accarezza il destino e si fa sole, unità di senso che fonde il mito all’essenza, la rêverie allo slancio. Con «ossessiva insistenza» la Cinti narra i significati che ogni Silenzio ha in sé: ambiguità e mistero, fascinazione e disperazione. E per ogni Silenzio c’è sempre un soffio, un colpo d’aria che lo infrange.

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1 commento a “La lingua del sorriso di Gabriella Cinti

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