Il collaudatore d’altalene

Il collaudatore d’altalene (autismi e artifici letterari).

Al figlio unico di Annie Seri e Umberto Piersanti. Parte 1ª

 

 e a Cinzia

 0. Capita d’essere segnato durante la vita o lo si è sempre. Creare un’opera dal nulla muovendosi alla ricerca di ciò che non si sa, per poi sentir la voglia di trascriverla (modellarla, dipingerla, ecc.), confidando d’esser unicamente l’artefice. Io, ad esempio, approfondisco in tal senso: osservo, scruto, a volte ci prendo, in altre abbocco e non scorgo… e quanto andrò a esporre mi tocca al riguardo.

1. Un libro. Un libro certo. Un libro aperto di poesia. Un libro-verso, un testo vero di poesia non lo scordo. Un libro sincero di poesia è ricordo e profezia, è impensabile. Bianca la copertina (un po’ meno le pagine che sanno d’umidità) e in rilievo i versi… scuri. È facile da toccare, scordare in tasca, da leggere a chi ti fa batter forte il cuore (sperando nell’uguale effetto in chi ascolta). Ma chi se ne accorge? Ecco entri nella camera delle meraviglie o esci per il giardino delle delizie qui, invero, t’addentri nei luoghi persi, quindi ti confondi: c’è una bella stagione che lo permette, in certi momenti dura così a lungo che non vorresti più andare via e poi è stupendo far l’amore all’aperto, passare in rassegna i fiori ad uno ad uno, sentir l’odore delle strade o per contro i rumori nei vicoli.
Annie è vivace, è incinta. Il vivaista Umberto, a parole, perpetua il tempo che può.
Inizia la vita. Inizia la poesia. Girovagare nell’attesa eterna attesa di una dipartita.

2. Tentativi. Il motivo di questo scritto in fieri è presto detto anzi le ragioni e gli spunti son vari.
2.1. Un libro. Avevo iniziato con un brano nel marzo del 2008[1]. Così procedo come se avessi una impellente necessità biografica: poiché «l’altro» mi descrive, fondamentalmente. I titoli poi sono la fine dell’opera, quello in origine, a questo punto, era «Jacopo ossia “l’enigma dello sguardo che si posa ovunque e sempre assente”», preso apposta all’interno de “L’isola”[2], vedendo, a differenza dell’autore, un rimando a suo figlio e in altro modo a gran parte dei giovani d’oggi[3], con molti interessi (inconsistenti), soltanto interpreti, con neanche l’alibi della malattia o d’essere sani in un mondo infermo. Ma lascio ad altri le impietose analisi sociologiche.
2.3. Una veduta, tra noi. Storie che meritano in ogni modo d’essere riportate.
2.4. Comprensione. Questo articolo finisce ipoteticamente il 29 marzo 2014. Di fronte colui che in carne e ossa mi affronta. Domanda implicita e stupida: ma cosa gli avrò fatto mai!?
2.5. Folate. Il poeta, il figlio, la fiaba madre, partendo dalle silloge “I luoghi persi” (1994), “Nel tempo che precede” (2002), “L’albero delle nebbie” (2008).
2.6. Quasi nessuno. Altro titolo provvisorio: «Japoco o Jarobo ossia non solo esercizi di stile sul figlio unico di A. e U.».
2.7. Discendente. Ammiro mio padre, vorrei diventarlo, ma non troppo, infatti…
2.8. Tempo al tempo. Annie e Umberto m’incitano e pazientemente aspettato, per una testimonianza scritta, data la mia frequentazione feriale… saprò come scontentarli.
2.9. C’era una volta… Non posso che perdermi nella gabbia d’oro della poesia fatta leggenda.

Foto che mi ricorda un’opera del grande Scipione

4. Comprensione. Nell’autunno 2007 feci un colloquio di lavoro presso una cooperativa sociale[4]. Mi chiesero subito di assistere a un ragazzone (la dicitura precisa era un “ragazzo cresciuto”) con alcune problematiche comprese nell’autismo[5]. La mia formazione è da una parte umanistica e dall’altra scientifica[6], ma intuivo che avevano principalmente bisogno di un uomo per contenere questo giovane che poteva, tra le altre cose, alcune volte, in-volontariamente… aggredire. Il colloquio era paradossale ma in modo onesto poco rassicurante: venivo subito a conoscenza di un collega che in precedenza era stato addentato a un braccio e a una mano, con relativo sangue… d’un tratto un sorriso mi balenava da qualche parte… e pensavo alla mia incoscienza.
Qualche giorno dopo incontrai Raffaello Jacopo Piersanti, con il suo sguardo e il suo saluto brevi (neanche ci eravamo conosciuti che gli stavo già antipatico o semplicemente indifferente? Fino ad allora succedeva solo dopo un discorso sui massimi sistemi)[7], c’era un bel lavoro da fare. L’indomani feci poche ore di affiancamento e iniziai subito la storia. Prendevamo io e Jacopo il treno da Civitanova Marche per Macerata e sedevamo accanto o di fronte, dove capitava, in seconda classe, tra pendolari e studenti (di più quest’ultimi). Una volta lui si mise a fissare, con uno sguardo per niente confortante[8], una vecchina che gli sedeva vicino, senza che questa ricambiasse. Era amore o fame, finché non fu ora di uscire, di camminare fino a un istituto scolastico, passando per il tribunale.
Jacopo, bel ragazzo alto, robusto quanto me, ugualmente agile, osservatore in incognito di chi o cosa gli stia accanto e quanto meno te ne accorgi, ti sorprende. Cosa non trovava per terra durante il tragitto! Non mi risulta però che abbia mai sofferto alle gengive. D’altronde lui dal dentista urla solo perché è impaziente di aspettare che arrivi il suo turno.

A scuola seguiva un percorso personale (qualche ora con un insegnante di sostegno che si risolvevano nel girare dadi in bulloni o nel provare a digitare sulla tastiera di un computer sgangherato) e collettivo (con una insegnante di psicomotricità[9], in gruppo, per altre attività motorie e di abilità). Ma tutto il tempo lo passavamo inseparabilmente insieme, anche in bagno.
Ricordo le sue richieste di cibo o di bere, ogni cannella era un invito, ogni bicchiere una preda. Lui somiglia a un sommelier alle prime armi: spesso assapora a lungo e poi difficilmente sputa, se non minacciato, poi alla fine, per pietà, deglutisce. Ricordo anche le sue pretese di stare da solo o insieme agli altri, ma sostanzialmente in modo appartato. Con una ragazza sembrava avere del tenero, poteva capitare che lo invitassi ad abbracciarla o a darle un bacio e l’ha sempre fatto, come un gentiluomo allegro. E poi le sue forti risate e i suoi improvvisi lamenti e attacchi d’ira. Quanti combattimenti a tutt’oggi, fatti tanti di abbracci e placcaggi! Abbiamo ancora qualche livido e conto in sospeso. Ma chi non ce l’ha?
Altri giorni della settimana invece stavamo in una fattoria (didattica) e lì Jacopo poteva strigliare, dar da mangiare o passeggiare con l’asino (che fatica per farlo salire in groppa, probabilmente non gli interessava), facevamo qualche attività manuale (bricolage: con carta, colla, legno, chiodi, ecc.), giocare, poco (a nascondino bastava tirarsi su la giacca, col pallone era sufficiente tirarcelo e qualche volta faceva canestro controvoglia, lo stesso succedeva con il lancio del ferro di cavallo o meglio d’asino), andare sull’altalena, molto: che tempo liberato![10]
Per qualche anno poi non ci siamo più rivisti. Entrambi siamo andati in due anffas[11] diversi con differenti ruoli di cliente ed educatore. Mentre scrivo sono quasi tre anni[12] che sono ritornato da lui, con l’iniziale cooperativa, appoggiati a un’azienda di servizi alla persona, ma l’ho ritrovato con un serio problema renale… solo lui sa cosa succede dentro di sé.
In questa azienda perlustriamo i locali alla ricerca inquieta di un posto che possa piacergli o che si faccia qualcosa… ma cosa? Provo con la didattica (una strada ordinata di linee e tondi per risalire alla certezza del nome), il di-segno (insieme lo guido con la voce e la mano e realizziamo dei personaggi fantastici, di cui alcuni riguardano la natività) e certe attività mirate[13]. Il linguaggio sembra essere ritornato alla prima infanzia, lingua della verità senza filtri. Una bocca di sillabe, versi, affermazioni essenziali e vitali. Parole tronche e friabili come i cracker che il giovane mi reclama spesso. Anche qui gli ho fatto “incontrare” la simpatia di una ragazza, la quale a seconda dell’umore asseconda un certo affetto e lo abbraccia, lo bacia, lo chiama Jatopo o Jatopooneeee e ride urlando. Quando il nostro giovane vede la foto affissa dell’amica, tra le altre nel corridoio, ha come una visione… si ferma. Venera? Comunque ha tutto un suo modo di esprimersi e non si può dire che non abbia fantasia[14]. D’estate, quando il tempo permetteva, lo accompagnavo al mare (dove se non era impanato era un delfino), tra l’inverno e la primavera in piscina (dove se non è un delfino è un palombaro govoniano): l’acqua l’adora, forse perché gli da solletico o può darsi perché “un’altra storia narra, / un’altra vita, / la tua che ti aspetta / fuori del male” [15]. Credo con sicurezza, però, che solo i genitori (in prima posizione la madre) sanno com’è stare con Jacopo; per tutti gli altri, temo, sono solo e soltanto tentativi.
Dicono che sono un buon educatore (per lui) ma so che non è così[16], forse chi lo dice fa per infondermi fiducia, per non farmi lasciare, ma so che capiterà indipendentemente da me. Infatti l’azienda, mentre aggiungo questa frase, ha deciso dal 13 prima, dal 20 maggio poi che a seguire Jacopo non ci sia più la cooperativa ma il personale interno. Gli affari sono affari[17]. Fine.

5. Folate. L’asfodelo è la chiave per l’aldilà. La gamba bianca accompagna la storia da narrare. Segna il confine tra le realtà dell’esistenza. Così dura e lieve è la terra (piersantiana) velata dalla durata. E il tempo si ferma come “il gregge” col “pastore nell’ombra”, nell’“estate non finita” o “nella primavera che tardava, dove non c’è ritorno”[18] ed errano territori e personaggi, i più disparati, fonte di iniziazione alla fiaba (erotica) piersantiana.
Nella moderna letteratura dell’infanzia una buona parte di racconti si riferiscono alla venuta al mondo dell’essere umano, a volte in parallelo alla nascita dell’essere magico. Ne “I luoghi persi” (titolo già evocativo del “fantastico”, come lo saranno le raccolte successive) tra le descrizioni naturalistiche, come una storia che si rispetti appunto d’altri tempi, spuntano due speculari nascite: all’esordio la prima, dopo gli onori al fiore liliaceo, “so ch’aspetti un figlio, che aspettiamo”, primogenito che spunterà, tra i versi, per quasi tutto il libro, “lui, quando guarda gli arbusti dentro il quadro / tende i due pugni stretti e urla / non so come chiamarlo”[19]. L’altra nascita invece, stavolta magica, legata ancora all’asfodelo viene immaginata come una preveggenza: “nasce il figlio coi doni, nel sonno / vede le storie di domani / e le racconta”[20]. D’altronde quanti versi di Umberto per il figlio datati intorno al periodo natalizio, ad esempio tra tanti: “tocchi la paglia e ridi / ci giri attorno / tua madre aspetta ancora”[21]. In questa poesia (La capanna del presepio) il verso, quando entra di scena Jacopo, quasi si abbrevia, si rende essenziale e così sembra continuare quando ancora compare il ragazzo. E lo stesso vale anche nella realtà quotidiana.
Con questo nuovo libro Umberto inaugura un laico, vitale e personale avvento: l’attesa, la venuta, e a seguire nelle successive pubblicazioni (come una monologia interiore a puntate; tra quest’anno e il prossimo infatti ne uscirà un’altra) l’angoscia, la gioia e in qualche modo la liberazione del discendente. E il figlio si va ad aggiungere, nei versi del padre, ai sapienti ingredienti ampiamente impiegati nelle fiabe. Poiché la fiaba stessa è il nostro luogo perso dell’infanzia, nei racconti che qualcuno fa ancora oggi, quando legge ad esempio a un bimbo… e quante storie ha raccontato Umberto a Jacopo! Questo tipo di racconto è un suggestivo circolo dell’ascolto, perché l’accento, le pause, la cadenza, l’“onda sonora” più della parola fanno spesso la differenza.
Un’altra sezione del libro (Frammenti di poema) avvalora questa predisposizione perché chiarisce che “l’oralità” precede “la scrittura”. Il cantore di un’epoca passata non vergava quanto detto, poi vennero i trascrittori e tale reso-conto da una parte perdeva spontaneità, dall’altra invece veniva personalizzato e alla fine reso-memoria ereditaria. Umberto raccoglie tutto (germoglia ancora il mito dell’autore che dal particolare va all’universale) e ne fa altresì presa diretta, in un flusso di incoscienza e discordandosi dai tempi: “quando la nebbia arriva alla tua casa / ma restano i mattoni sotto il sole / allora il grande viaggio puoi tentare / attraversi la nebbia finché scompare / passi nell’altro regno senza morire”[22].
Si cammina tra le pagine, gli occhi scendono lungo i fossi, tra le pieghe dei fogli, allora ci si imbatte nella “casa di mia nonna e dei racconti”[23], da dove sbucano i personaggi della macchia, perché “i boschi sono pieni di esseri strani”[24], “nei miei boschi passano gli dei / stanno dentro le fonti e nelle grotte / s’accostano improvvisi nel cammino / di rado sono saggi, pronti al riso / all’ira e all’amplesso cogli umani”[25], tra tante entità “lo sprovinglo, il diavolo cane nero” (l’essere abbinato alle sventure, usato per identificare l’origine del male e per infondere terrore) e varie anime curiose, tra cui una “che legge il giornale a mezzanotte”. Poi non ha importanza sapere se tutto è vero, anzi è il caso che in ogni dire ci sia della fantasia, il cosiddetto nostro sentire. Umberto mi racconta, ad esempio, che la sezione “Cespi e fiori[26] è tutta inventata. E io voglio dubitare e tagliare il nastro della sua inaugurazione alla poesia fiabesca. L’immaginazione è il luogo dei giochi proibiti. Il luogo della felicità, delle scoperte che fanno spavento, che stupiscono e che restano anche nei grandi, quando maturano una certa ricettività, sono quelle del “tempo più amato che s’invola”. Anche l’attesa di Jacopo è incorniciata in un tempo suggestivo, dove dimora il paradosso, quindi anche il tempo “non vola via” è “fatto altro” e come sempre, anche in senso positivo, “inquieta”. Un figlio comunque si rivela speciale, come uno spiritello[27], come quel “folletto coi sonagli” o l’altro “attaccato al tronco” (“anche la fata” esce “fuori dalla corteccia”[28]) che popola le “vicende” del poeta e vaga per sempre nel “pallido villaggio dei racconti”, dove ci si ritrova per un altro mondo e le percezioni si scombinano.
Un tempo Jacopo poteva essere confuso con lo “scambiato”, rapito da chissà quale sortilegio o incantatrice, raccolto nelle testimonianze degli abitanti dell’Europa medievale, il tutto per giustificare la (mala)sorte che ha toccato chi ha concepito un figlio, autistico[29]. Perché a un tratto, il piccolo, cambia atteggiamento ( – era la fine di settembre del 1990 – mi dice Annie –  e in questo mese Jacopo era un po’ agitato, però l’agitazione non era una cosa normale in quanto c’erano una serie di elementi che facevano capire che era successo qualcosa di grave, per esempio cominciava a parlare e dormire di meno, strappava le tende, era agitato… Umberto collegava tutto questo, tempo addietro, a un altro episodio insolito… –). Avvolte Jacopo non sente neppure la madre se lei lo “accarezza”, se lei lo “invoca” lui non ascolta, “immune alle parole / e agli spaventi” e lo stesso vale per il padre. Perché questo figlio è come “rinchiuso nel castello / più lontano e sperso”[30], è disperso nella “stanza remota” dove attende, forse, di essere ripreso; è colui che vive “sospeso / e assorto”, “assorto e assente”, più volte “lontano”, “distante” e continua Umberto, dosando saggiamente i paragoni, “tu resti solo sempre” come un “queto animale / dei miei fossi”, “straniero / anche dentro il mondo”, “fauno-fanciullo mite / e innocente”, che non teme “il buio”, “il freddo” (“nel gelo ci vivi / e ti ristori”[31]), colui che è un “elfo inconoscibile”. Colui che “quando ancora non eri lontano / e sperso, / alla fiaba pensavo / di chi scendeva / da quel regno alla vita, / sceglieva il cuore, / forse, del tempo che precede / qualcosa t’è rimasto, / ma confuso, / qualcosa che t’avviluppa i muscoli / ed il cuore”[32], come nei racconti dell’infanzia di Umberto si diceva che “i bambini, prima di nascere, vivono in un mondo a parte; scendendo sulla terra ognuno dovrà scegliere il suo cuore”[33].
Jacopo è pertanto parte integrante del mondo favoloso del padre, proprio perché come il bambino delle fiabe non solo disobbedisce ai divieti ma non conosce regole, “tu t’aggiri nel mondo / così solo e assoluto, / non sai che ognuno / ha spazi designati”[34], “mi costringi, sempre, / a lasciare le strade”, “dal mondo ti separi”[35] e proprio per questo fa largo a un’altra ipotesi di vita (– la fiaba, il mito per me  – mi svela Umberto – sono veri di una verità che non c’entra affatto con la verità effettuale delle cose, sono dei modi di percepire e di sentire il mistero, le inquietudini, le contraddizioni del mondo… credo che le mie favole narrino la lotta eterna dell’uomo dentro la vita).
Se per Umberto c’è nostalgia (che non è per forza, etimologicamente, un dolore del ritorno) è semmai una energica e costante ricerca dell’altrove (e qui dentro c’è anche nascosto Jacopo) nei luoghi persi (tra le righe della reminiscenza), in una indagine nei luoghi della memoria di bambino, di adolescente, luoghi amati e fissati nel tempo, assicurati in una letteratura meditata e in una lettura cinematografica della pagina (alta sceneggiatura). In questa maniera fortemente rallentano le ore di Jacopo, sia nei versi a lui dedicati che nella realtà. Una crescita mentale sospesa di un bambino che ha negli stessi luoghi, ripetuti, la sua sicurezza, il suo microcosmo familiare, così come il padre che vive, quando racconta le sue avventure erotiche o quando cerca insistentemente il punto dove scorgere il tramonto del sole, in “un’attardata e solitaria maturità”[36]. E forse le parole che si rivelano in questi casi restituiscono una terminologia affettiva a una ormai consueta affezione (che si effonde) e magari tra una visione e l’altra, in un’analisi euristica, si possono scorgere trame, sensazioni, interpretazioni che vanno al di là della letteratura (scientifica) e che possono contribuire a meglio conoscere i comportamenti del protagonista così come della sua famiglia[37].

6. Quasi Nessuno. Una madonna a caso mi supplica che lo stendino di moci accanto non è asciutto C’è un finestrone senza maniglia e noi nella stanza delle meraviglie abbindolate e accatastate stiamo da parati tra la carta vecchie stampanti e i balocchi avi vedi guardi scruti si commuove il televisore delle allodole il termosifone urinato suda freddo il tavolo ikeizzato sparla con l’impiantito che colleziona scialorree Oh mio alter ego sei di fronte sei di fretta la porta è schiavizzata Luigia apre e lamenta sorrisi con gesti romagici Roberta è rossa venata nuda Orietta no ma girellona e noi non da meno falchiamo stretti prima tappa il centralino dove Mara espia come fotoricopiatrice seconda tappa il corridoiopoco ove la bella talpa del posto gira senza scopo la terza tappa invece cigola la quarta sbadiglia Le scale della libagione commentano le impronte della salute le scarpe ridono e il giovane aggiornato piroetta d’attore Nella sala magna Mafalda ci comanda l’acqua Japoco la trasforma barcolla ballando con le sedie che saggia e queste imprecano pietà Mafalda in fanese ballerina ama andare a Parigi per questo parecchia molto Direi a rebours ma a ritroso cerco Jacob mentre mi sposso le scale Ecco il mio ragazzo che s’accoppia col lettino palestrato guasto vuole il solletico si autocinge e la palla non sa d’essere tirata Ogni quindici minuti una minzione d’onore e i guanti della sofferenza preparano i rifugi alle lacrime e alle madonne ma le ferite non sono bio-degradabili dito e piaga fanno la stessa cosa e luccicano come una frangia Naufraghiamo in una nuova panza gli orologi da parete danno i numeri danno sempre le stesse nuvole crolla il fiato eppure siamo in un’altra sedia ma loro non ne vogliono sapere La tuta la tua tuta invisibile per una risposta sbagliata i denti affondano nella mano d’elefante per due risposte e tre stesse domande scende una mezzaluna perfetta sulla mia carne di seconda scelta che sorride l’insulto è viola il moro ciclope-manichino non ha freddo cerca tra pannoloni con adesivi di troppo e mille maglie la tuta la sua tuta invisibile Per un momento che si ripete disegni come un marziano navigato come chi ti chiama Japecho quindi la mostra antologica sarà su Venere La sete la sua sete visibile in ogni dove ricorda l’accappatoio spaso il vetro incuffiato le mutande ad arrostire e tutte le bottiglie provate da un bacio senza respiro Le cinque precise leggende poco interessano alla fama di chi non da da sapere meglio la favola della farina di frumento al limite Biancaneve da sola o Cenerentolo o ti leggo meglio ancora qualcosa di einaudito Mi fai contento col riso soffiato e aghignato che fascia tutto il corpo sovente piagato Altro quarto diuretico dentro duemetriquadri di lotta pressurizzata tra la respirazione artificiale col rubinetto e le istruzioni che dicono di sforzarsi col proprio rubino poi c’è da tamponare il volatile dopo un bombardamento sicuro sull’impiastrillato intanto mediti e smanopoli il bidè e fai una deiezione di fiducia alla salute della mia maglietta sgualcita il lampo non c’è più l’asola pure ma il raduno dei lattici e dei ricambi ora è al completo Cerco almeno dentro la testa Jacob che è la mia salvezza dovrà pur esserci intanto vaghiamo più là Si va allora in un’altra quattroquadri in venti assediati assortiti assunti nel vuoto gira Togni e un tuorlo d’uovo vige il sussidiario di chiacchiere dai impila l’aria tonda mentre qualcuno sgancia danziamo alla vita Japolo danziamo nel frattempo hai già finito sei sempre un supereroe e ti trovi altrove ma non dimentichi i bel-ami Sbucano le sedie a rotelle dicono dei soli azzurri della neve rosa spostano le statuette dei santi ignoti sulla bocca di tutti e insieme bofonchiano tra loro in aramaico Anna maglia Agnese pure farfuglia Paolo è suo ma mettedito Katiuscia fatale e Paola lambiseggiole mi regala figurinole Serena tanta acqua di lingua gareggia con Giovanna e Paola da majechinosasino mi buongiorna Nella seconda tappa affannosa si contempla la fusione delle membra con la sediera ave Gabriella piena di grovigli Giuliano è con te continua tu che sento d’Alberto gli strigli tu accavalli ma mai intrecci come Diego fra tutti gli assediati e Roberto non è da meno tra i penati santa Rica cronista madre di tutti noi quelli dimenticati La contabilità dell’ascensore partorisce storie raddoppiate i visitatori diventano creature e le protesi amplessi digitali La scalata al sottotetto sottosole sembra non cessare c’è il panorama che si chiede e le contropianure sanno d’utile Sotto la prossima torta che non si farà più bei tempi quando le mani di Jagogo non si fermavano più Corre alla porta divelta scende le scale Con me Sottobraccio La camera di Licia non c’è più solo l’arredo piange come pronunciavi bene quasi tutto il suo nome che non c’è più Ecco il bagno grande buono per parcheggiare sforzati caro tanto l’anima resta tra gli spini Scende le scale Con me Sottobraccio per un bicchiere di entumin e lattulosiolo Ennesimo cesso di non star fermo come d’Alessandro con i suoi sgridii Ancora kilocentimetri per la sagra della sciapitudine poi al Salone dell’assolutezza sciorinano gl’ecolalici e s’invertono le parti ancora di più e Jatomo è un flipper che crolla su un tappeto volante Io esco lo lascio e mi vedo quasi nessuno

8. Tempo al tempo. Annie e Umberto, due tempi differenti. Annie continua a seguire o precedere il figlio. Umberto si accoda, il piede non è più quello di una volta e la penna si sostituisce alla gamba: “non riesco a starti dietro / … / la tua corsa cieca / che mai si volge / e mai ritorna / è solo più sfrenata / ma sempre quella / di te a quattr’anni / quando scendevi i campi / e come allora / figlio che non cresci / bisogna che qualcuno ti fermi”[38]. Si vive in una dicotomia terribile dove tutto sfugge al controllo. Annie e Umberto cercano di intervenire, provano, tentano, fallendo, di superare o fregare il tempo, per fissarlo: “come prego il giorno / che non passi, che siano / le ore più liete”[39]. Che ci sia un altro modo per ristabilire l’ordine virtuoso che un fattore organico ha portato via, inesorabilmente? Ma chi ci riesce? Jacopo stesso! Perché lui è un “viandante senza sosta / e senza meta, / il cammino per te” è “fatto destino”. Lui crea le condizioni a noi sconosciute per la conduzione della vita inquieta. “Jacopo corri, / corri senza sosta”, “tu non ami le soste”, la sua, allora, è una “corsa senza requie” verso le consuetudini stupefacenti. Quando il ragazzo sogna e lo fa sicuramente (e Umberto proprio nella sospensione temporale che il percorso onirico impone lo può riconoscere “non eri fuggito / dalla mia mano” e riperdere “dentro quel fumo grigio” e daccapo “ti debbo Jacopo / ritrovare” [40], anche in questo campo fantastico la ricerca è senza sosta), proprio in quei momenti di assenza, paralleli e apparentemente pacificati, che Annie lo può accudire, gli può versare le gocce delle medicine e dei suoi occhi[41]. Quindi memore Umberto impaglia accuratamente il figlio in un foglio, dove può meglio discernere e riprendere a se insieme ai ricordi, ai bei e tesi momenti di vicinanza, questo bambino già grande ma sempre quasi infante, “figlio, il tempo non ti riguarda”[42].
Le “tue corse improvvise / più non raggiungo, / ridono gli altri padri”, il poeta con la sua stessa scrittura, la sua stessa parola, reitera una vana formula magica che faccia in modo di scarcerare Jacopo dal “castello / il più lontano e sperso, senza fate”. Gli appuntamenti per quanto frequenti sono fugaci “nella casa nemica l’accompagna, / lo bacia sulla porta / e poi scompare”[43] quindi “ancora un’altra volta fuggo via” [44], perché nella dimora autistica non si entra se non dalla finestra, ma questa è molta alta e la scala al momento è in prestito. Fermiamoci a osservare.
Il tempo “muta” la storia e quella personale, “inquieta” per il suo incedere, nel vero senso della parola. Il tempo che si fa attesa, condanna, “ora davvero sono solo / e nulla posso per il figlio lontano”[45]. Il tempo che si fa biografia poetica dalle precedenti pubblicazioni: “La breve stagione” (1967), “Il tempo differente” (1974),  “Nascere nel  ’40” (1981). Dal “tempo che precede” al tempo magico dell’infanzia dell’autore a un tempo crudo e concreto della malattia del figlio e quindi dell’oggi. Umberto non può far altro che tallonare ancora una volta il tempo (e il terrore per la sua fine), il figlio e quindi i ricordi. E ancora Annie non è da meno. I tre sostantivi della penultima frase sono essenziali e si intrecciano. Il tema del rincorrere è fondamentale, “corri, corri / sempre, dai tavoli / scompari e non attendi, / ed io dietro di te / sempre più stanco, / tu immune dal tempo / che il padre affatica / e un po’ lo piega”[46]. Si corre attraverso il tempo, consueto negli umani ricordi e prospettato attraverso la memoria dei “luoghi persi”. Jacopo fa degli scatti fulminei come a frantumare ogni imposizione “sempre senza una sosta / e senza una meta” per Umberto invece “la nostra strada è a cerchi / non ha uno sbocco”[47], “figlio, io debbo / contenere ogni tuo passo / e gesto dentro il mondo / e il tempo non conforta, / non c’è sollievo, / questa fatica è fissa, / scorre coi giorni”[48]. Ma questi passi affrettati, quasi come dei salti temporali, sono fatti dal giovane come se si opponesse, per quello che può, a ogni condizionamento e sono esempi per superare certe paure “è presto si fa notte / noi sempre in giro”[49] o certi dolori “e tu corri Jacopo / come sempre, / scortichi braccia e gambe / tra gli arbusti, / e la nebbia non curi, / l’erba bagnata e fredda, / gli spini aguzzi, / corri”[50].
Con la natura, con Jacopo, con il carattere del figlio è quasi come se Umberto ripetesse nei versi gli stessi passi, percorrendo strade nuove. Poiché il ricordo scritto, reiterato, rifà la vita, nella speranza e “rende vasto il luogo dei ritorni”[51].
Jacopo (non) morirà come tutti. Solo il suo sangue se ne accorgerà. Del resto sarà come uno dei suoi tanti “amì”. Ma non è sempre così.
Gino De Dominicis (paragonato da Montale a Caravaggio) si presenta alla Biennale di Venezia del 1972. “Ho creato un’opera dal titolo Seconda soluzione di immortalità (L’universo è immobile) composta di alcune opere che erano poste davanti al sig. Paolo Rosa (volgarmente da tutti chiamato “il mongoloide”: sarebbe come chiamare, invece che con il suo nome, “il miope” una persona che porta gli occhiali) che le osservava dal suo unico e particolare punto di vista interno all’opera stessa e opposto a quello degli spettatori”[52]. C’è forse un’unica foto di quell’evento: il giovane è quasi assorto, buttato lì, nella vita, come i tre oggetti che ha davanti a sé e in quella maniera ha composto il suo personale essere, ignaro dei momenti (trascorsi) e quindi con una propria concezione temporale. Così anche Jacopo è immortale. Tre volte. Perché come Paolo “non ha una percezione continua del tempo ma istantanea, allora l’istante sospende la continuità quindi impedisce la morte”[53]. È mitico anche nelle pagine del padre, poiché accuratamente e involontariamente come scrivendo a lui, lo consegna alla storia: “passi nell’altro regno senza morire”. E infine è eterno per tutto quello che ha passato e passa tra patologie, terapie e contraccolpi fisici e quindi nel cuore di madre.

9. C’era una volta un giovane che non guardava mai dove andare e parlava lentamente per formule magiche. Queste non erano intelligibili da chi incrociava nel suo cammino, ma si diceva che una popolazione dall’altra parte della terra poteva capirlo o almeno intuirlo. Ma quello stesso popolo si era inspiegabilmente estinto prima che si sapesse o, peggio ancora, appena dopo che lo si era saputo. Quelle stesse formule poi non erano nemmeno lontanamente simili a quelle sbiascicate da streghe, fattucchiere e maghi vari, che sanno fare solo e soltanto danni, perché chi aveva la fortuna di sentirlo, quel giovane dal doppio nome, faceva battere forte forte il cuore.
Si dice pure che prima che nascesse il tale giovane da subito gigante, non fosse nata neppure la sabbia ossia si trovava sì, sparsa qua e là, ma nessuno l’aveva mai considerata come faceva lui, poiché l’aveva liberata dalle bocce di plastica ma soprattutto dalla clessidra. E al suo tempo, che era diventato il tempo differente, non era stata ancora inventata neanche l’altalena. Non voglio dire che il giovane, dallo sguardo divertito, aveva depositato per primo il brevetto, ma solo che lui sapeva come collaudarla, l’altalena… poeticamente. C’è un altro modo?
Fu scritto altresì che il giovane, dal volto senza pieghe, avesse il dono della bilocazione ovvero che si trovasse contemporaneamente in due posti diversi di cui uno era sempre, incessantemente… una pasticceria; ma questo non è dato di saperlo con certezza, perché gli archeologi, tra un dolcetto e l’altro, lo stanno tuttora studiando (c’è chi rammenta che il luogo di intercettazione potrebbe rientrare all’interno della categoria alimentare e chi, viceversa, pensa più a un bar dalle porte aperte). Comunque in alcuni fogli, composti stranamente non di cellulosa e altre sostanze ma di renella e saliva, che si dice appartenessero al giovane ammirato, vi è scritto piuttosto che tali ricercatori si sarebbero fermati alla prima confetteria incontrata, nel loro pigro e lungo cammino, e starebbero ancora annotando la minuziosa descrizione del giovane fatta dalla proprietaria.
Un giorno il giovane, che non era più giovane ma lo rimaneva nell’animo di spini, scomparve.
E la sabbia in parte ritornò negli orologi, qualche pasticciere pianse senza che nessun avventore capisse il perché, ma le altalene, sì, le altalene continuarono e continuano a sorridere con i sederi dei bimbi e delle bimbe. E lui con loro.

Roberto Marconi


[1] Jacopo / Ti voglio bene… – / è il tuo modo di dire / che sei un essere alato / e il tuo canto è normale / di poco più alto per chi ti sente. / Fiuti la vita come un soldato / in avanscoperta in una pineta / armata di foglie e di baci, / poi come un imboscato fuggi / saggi la stoffa di chi ti segue / ed io, tra quelli, sono da te / più volte sparato a salve… / – Ti voglio bene… – / e lo ripeti cogli occhi d’ombra / e il passo di un pettirosso / spaesato o come la foca maldestra / che usa i birilli come stampelle. / Mostri la violenza di un fiore / che non si sa cogliere e si fa / negare allo sguardo e con piglio / in pieno centri la tua presenza: / non so proprio chi diavolo sei / e mi rassomigli troppo. / Assente è il tuo calendario / e i numeri frullano nell’aria / mentre t’abbraccio mi stritoli.

[2] U. Piersanti, I luoghi persi, Einaudi, Torino 1994, p. 32.

[3] Per comodità o ingenuità faccio finta di non rientrarci.

[4]  La colpa di questa idea fu della mia futura moglie (lei molto più competente di me in campo sociale).

[5] L’autismo (o si dovrebbe parlare meglio di autismi) è in espansione e nonostante tutto se ne conosce ancora ben poco la consistenza, specialmente sulla prevenzione e le modalità di intervento. Per gli specialisti del settore l’autismo è connesso al malfunzionamento dei neuroni. I sintomi sono la difficoltà nel linguaggio quindi anche nella comunicazione, nel relazionarsi e ciò implica pure problematiche comportamentali. Però per approfondire la materia si può inizialmente andare su un motore di ricerca, in una biblioteca ben fornita poi, in tempo, frequentare un corso specifico, ma contemporaneamente lavorare con Jacopo è tutta un’altra cosa. Ho chiesto poi ad Annie e Umberto quali fossero le cause della patologia del loro figlio e concordi mi hanno risposto in un fattore bio-chimico, genetico.

[6] Dalle Lettere Moderne alle quasi Scienze della Formazione. Dopo la fabbrica, il supermercato, i tirocini scolastici e al lavoro che da tempo svolgo in una biblioteca, che collabora tra l’altro con i Servizi Sociali.

[7] I nomi sono stati scelti da Annie, da un retaggio familiare e da una tendenza (che resiste ancora oggi) in certe zone (geografiche) di raddoppiare il nome al proprio nascituro. Ma in seguito se n’è pentita anche perché burocraticamente non è comodo. Pure Umberto avrebbe preferito un nome solo. Difatti tutti lo chiamano Jacopo.

In quel giorno incontrai per la prima volta Annie che scarrozzava il figlio, premurosa, provata, forte e fragile al tempo stesso. Arrivava al limite della partenza del treno perché Jacopo aveva e ha fretta solo quando ne ha voglia. Umberto invece lo conoscevo solo sulla carta. A dire la verità lo avevo visto e sentito tempo addietro in un incontro di un laboratorio di poesia e mi ricordo, tra le altre cose, che raccontava di conoscere queste zone perché accompagnava il figlio, quando era piccolo, al Santo Stefano di Porto Potenza Picena. Ma non mi ero avvicinato una volta concluso l’incontro, c’era troppa gente attorno, inoltre una ragazza carina mi aveva fermato per qualche informazione…

[8] Era successo una volta anche alla mia futura moglie, quando andammo a vedere un film d’autore, assieme a Jacopo.

[9] Questa giovane donna graziosa aveva una bella collana tant’è che un giorno Jacopo gliela strappò, per poi renderla.

[10] Vedere poi alcuni operai al lavoro all’aperto (con il martello pneumatico, la motosega, ecc.) è per lui pura contemplazione.

[11] Ma Annie non ne ha un buon ricordo. Anche perché quel periodo è legato al doloroso inizio del catetere per suo figlio.

[12] Per la precisione, alla fine, due anni otto mesi e tre settimane.

[13] Come comunicare visivamente. Poche purtroppo poi le attività corali con gli altri ospiti.

[14] Anche quando abbiamo partecipato a degli incontri di laboratorio teatrale con una simpatica esperta, quale momento migliore per improvvisare.

[15] Nel tempo che precede… p. 145.

[16] Non si finisce mai di osservare e imparare poi, alla fine, quanti fallimenti si riscontrano e si ricomincia da capo.

[17] Niente più confortante routine… Mi viene in mente una parola: commozione. Ho sempre pensato che volesse dire prendere con se una persona cara e portarla nel luogo dei desideri. Ma raramente tale posto è aperto. Quindi un bel respiro è aspetti che l’aria entri tutta dentro.

[18] I luoghi persi… p. 5.

[19] Ibidem… p. 12.

[20] Ibidem… p. 65. Come a lasciare al suo erede il testimone della poesia.

[21] Ibidem… p. 34. Oppure per fare soltanto qualche altro esempio nelle pubblicazioni successive ricordiamo le poesie intitolate: Dopo Natale, Dentro il Natale, Tra chiese e strade, Nebbia, ecc.

[22] Ibidem… p. 83.

[23] Non so contare quanti racconti un tempo pure mia nonna mi cantava.

[24] Nel tempo che precede… p. 7.

[25] I luoghi persi… p. 16.

[26] E capiterà anche nella pubblicazione successiva, dove ci sarà un’aggiunta “Cespi e fiori, animali”.

[27] Dalle mie parti si chiamerebbe “mazzamorello”.

[28] Nel tempo che precede… p. 9.

[29] Per approfondire tale tema e le implicazioni letterarie rimando al testo di A. e F. Brauner, Storia degli autismi : dalle fiabe popolari alla letteratura scientifica, Erickson, Gardolo 2002.

[30] Nel tempo che precede… p. 83.

[31] Per studiare questo paragone c’è il libro di L. Ravasi Bellocchio, Come il destino. Lo sguardo della fiaba sull’esperienza autistica, Cortina, Milano 1999.

[32] L’albero delle nebbie… pp. 65-66.

[33] I luoghi persi… p. 87.

[34] L’albero delle nebbie… p. 87

[35] Ibidem… p. 67.

[36] Come ribadisce F. Mancinelli in R. Galaverni, M. Raffaeli, Il canto magnanimo : a colloquio con Umberto Piersanti, peQuod, Ancona 2005, p. 98.

[37] Ciò si potrà forse intravedere anche e in altro modo nella seconda parte di questo scritto in divenire, che non può essere altrimenti poiché costituito da ricordi, impressioni e testimonianze vive.

[38] Nel tempo che precede… p.148. In questa poesia secondo la data (ottobre 2000) Jacopo aveva più di 13 anni e mezzo.

[39] L’albero delle nebbie… p. 74.

[40] Ibidem… p. 81.

[41] E pure meglio accarezzare, imitare inconsapevolmente il suo sorriso.

[42] Nel tempo che precede… p. 100.

[43] Ibidem… p. 88.

[44] Umberto ha i suoi impegni che ancora oggi divide tra Urbino, gli incontri letterari e Civitanova, dove Annie e Jacopo hanno in pratica sempre vissuto.

[45] Nel tempo che precede… p. 86.

[46] L’albero delle nebbie… p. 88.

[47] Ibidem… p. 79.

[48] Ibidem… p. 88.

[49] Ibidem… p. 79.

[50] Ibidem… p. 126.

[51] S. Caruso, Frammenti dell’inconsapevole sorriso, Marcus Edizioni, Napoli 2013. Non metto apposta il numero della pagina (come in precedenza ho omesso delle pagine nelle note, citando i versi di Umberto) perché invito a leggere tutto il libro, per i molti richiami e approfondimenti che si possono fare.

[52] E. Coen, Fu il mago degli atti irriverenti, in «La Repubblica», 12 luglio 1999, p. 28.

[53] Da un intervento di Achille Bonito Oliva nel video di G. Treves, L’immortale (Gino De Dominicis), 2011, in: http://www.youtube.com/watch?v=gqwQPSy6UIM.

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3 commenti a “Il collaudatore d’altalene

  1. Scorrere gli occhi su queste parole creano un suono armonioso nella mente e una danza vivace tra i pensieri, spingendo l’animo a perdersi nelle vicende, forse non troppo isolate ma raramente raccontante, delle persone che vivono confrontandosi ogni giorno con se stessi, le proprie risorse ed i limiti da superare. Un crescendo di emozioni che sciolgono il cuore e lasciano il sapore della vita che va avanti, senza sapere come andrà domani. Complimenti all’artista che ha modellato questa opera per avermi fatto appassionare.

  2. Come si fa a lasciare un commento su qualcosa che ogni volta che leggi ti colpisce al cuore?Posso solo dire grazie a Roberto per questo bellissimo racconto.

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