Fioriture invernali di Luca Campana

Pelagos Letteratura. Rivista diretta da Umberto Piersanti

Fioriture invernali” (Interno Libri)
di Luca Campana

“Fioriture” è vocabolo “felice”, che nel suo riunire ben quattro delle cinque vocali della nostra lingua introduce fin dal titolo alla pluralità di suggestioni di questa seconda offerta poetica di Luca Campana. Sei sezioni, in apparenza isolate per argomenti e riferimenti temporali, in realtà saldamente tenute insieme da una univoca motivazione poetica e da uno stile senza cedimenti.

“Fioriture” evoca esuberanza nello sboccio, tripudio vitale, controllato ma non soffocato, nella specifica intenzione del poeta, dalla connotazione dell’aggettivo “invernali” che lo accompagna – quasi un ossimoro. Nella morsa di una stagione che per sua natura impone la durezza delle prove, il silenzio e la pazienza dell’attesa, le fioriture si fanno cristallo, gioielli di ghiaccio, come nell’immagine in copertina, di Francesco Morelli. L’inverno è l’interminata stagione entro cui tutte le sezioni si dipanano, sentimento pervadente più ancora che realtà metereologica. L’autore ne ha impresse le stimmate, mediate dall’esperienza personale e da quella di generazioni di antenati vissuti tra i monti Sibillini, dediti alla coltivazione dei boschi tra “forre e strapiombi”, dove “orti scarniti” sono strappati alla roccia con una cura che ha la devozione del sacro.

Legnaioli, eremiti, partigiani hanno aperto nei secoli i sentieri dove genti innumeri hanno camminato dopo di loro; hanno consolidato riti e tradizioni, strategie di sopravvivenza, segnando e tramandando “coi tagli rugginosi di altre fami” “la via che resiste sotto il bianco”.  I nonni, i genitori dei nonni del poeta, tagliavano e vendevano legna, sorvegliavano il torpido incendio delle carbonaie: da qui deriva il continuo echeggiare di termini come “affilare” “incidere” “taglio”. L’immagine del tronco spaccato dall’accetta chissà quante volte avrà destato i sensi dell’autore bambino, fino a sedimentarsi nel suo inconscio; il suono “del ferro che penetra nel legno tenero” scandiva le stagioni, era il sottofondo delle ore passate a fare i compiti di scuola. Nell’arte sapiente del nonno di innalzare “cataste millimetriche”, acquisita in tutta una vita, il ragazzo che ha maturato, crescendo, la passione per la poesia sente una corrispondenza col suo esercizio di accostare parole. Col “fendente inferto”, con “la spaccatura netta/nella polpa” anche il nonno incideva “un suo verso continuo, /nodoso e ruvido come il suo corpo”. I colpi ripetuti all’infinito sono letti dal giovane come l’alfabeto con cui l’anziano affermava e tramandava sé stesso; l’esperienza affinata con fatica, il valore del suo attraversare le stagioni generavano via via la “frase tronca/da porre sopra il fuoco, crepitante/ dopo che il taglio della lama/l’ha divisa”. In un ideale, continuo rapportarsi dell’atto fisico dell’uno con il concettuale scarnire la parola dell’altro.

Nelle prime due sezioni, le più strettamente autobiografiche, una certa asprezza, a volte, di linguaggio e di immagini ricalca la severità degli orizzonti familiari all’autore, dove la “roccia calcarea”, la “marna” si fanno metafora del faticoso esistere di genti e animali, sottoposti alle medesime leggi di una natura che non concede sconti. “L’obliquo durare delle cose” vale per gli uomini come per le piccole esistenze: la lepre sorpresa dallo sparo che le squarcia il fianco, il maiale che ingrassa nella stalla inconsapevole del sacrificio che lo attende, sono anelli insostituibili di una catena in cui ciascuno ha il suo ruolo nel far progredire la vita, perché “è ciclico il seme degli astri”. E per quanto possa turbare, non si tratta di violenza gratuita ma di un tributo necessario di sangue, pagato “alla fame che tutti affratella”. Rocce piante animali sono presenze rispettate e amate: perfino le piccole api, citate in numerosi passi della raccolta. Il loro miele prezioso connota la “breve opulenza” dell’estate, stagione di nascita dell’autore; accantonato per l’inverno si fa paragone in una delicata apostrofe d’amore: “Distilli oro dalla polvere, custodisci/il sapore di un tempo a venire/come un miele stipato per l’inverno”. Ma spesso le api sono colte, come uomini e piante, nello stremo del vivere. Sono api d’inverno, con “addomi affilati dal freddo”; trovano scarse fonti di cibo, si stringono le une alle altre “in un grappolo in cui custodire/il calore residuo”. Oppure non sono che “brandelli d’ali e resina”, croste, residui di uno sciame migrato quando la brina inizia a coprire gli sterpi. Ancora, succhiano infaticabili un polline venefico dai “fiori di fiato” nei letti devastati del Covid, per “mieli amari” maturati nelle arnie apneiche degli alveoli.

Poi c’è la neve: così diffusamente presente da dare, insieme all’inverno, impronta specifica al paesaggio interiore del poeta, come è avvenuto per un altro, amatissimo, poeta marchigiano, Francesco Scarabicchi. Ma in Scarabicchi, scarnito dal sale delle città di mare dove è nato e cresciuto, la neve può essere “tacita bellezza che ingentilisce il mondo”, colore dell’anima, silenzio spiegato a fissare il tempo in istanti del suo divenire, coperta che cancella le tracce dell’esistere e il ricordo, in un monocromatismo di bianco, e nero affiorante. In Campana è invece elemento materialmente sensibile, incombente, con il quale l’individuo deve senza scampo misurarsi. Diversa che in città, dove è presto violata, sporcata dal calpestio, la neve dei monti preme con tutto il suo peso, piega e addomestica esistenze, consuma spoglie fino alla consunzione. Tutti i capitoli dell’opera ne sono pervasi, paesaggio di uno sfondo a cui ogni tratto dell’esistere può essere rapportato. La terza sezione, nata dall’incontro dell’autore con la realtà dell’autismo, vede la “pagina di neve” stringere la giovane psiche addormentandone lo sviluppo. Nella sensibilità dell’educatore la severità dei luoghi e della stagione diventa paradigma della malattia: “La montagna invernale ti somiglia, / anche lei non prepara il suo sonno, /gli va incontro indifesa”. Grazie alla lezione appresa dalla montagna il poeta può volgere alla malattia che le è assimilata uno sguardo intimamente partecipe, quasi ne avesse acquisito in virtù delle sue aspre origini una chiave di accesso. L’immobilità, il silenzio, il “ghiacciaio segreto, / preservato da sassi acuminati”, isolano metaforicamente il soggetto autistico entro un confine difficile da valicare, in doloroso contrasto con la primavera fiorita dei compagni in età adolescenziale, “ognuno in fondo troppo preso/dalla sua stagione bella/per pensare alla neve”.

Il corale coinvolgimento nell’evento pandemico ispira i versi della successiva sezione, dove prendono forma poetica i sentimenti comuni della segregazione delle esistenze per una durata indefinita, l’angoscioso stillicidio delle degenze ospedaliere, la sfilata dei camion nella neve, che è stata immagine forte – cimento per quasi chiunque pratichi la scrittura – data l’inedita drammaticità nella memoria collettiva recente. Ancora, più che mai, è luce d’inverno a illuminare i versi, algore in cui resta come raggelato il respiro del mondo, nella tensione a una svolta della fase emergenziale via via più agognata e sempre procrastinata. Fioriscono “fiori di fiato” i malati, che vedono profilarsi l’orizzonte “bianco senza segni”, il loro “boccone di neve”, mentre l’occhio dei monitor “incide” giorno e notte “il paesaggio invernale dei corpi”. Nel quotidiano isolamento, in cui ciascuno deve accudire le sue incertezze e paure, si affacciano attutiti echi del mondo esterno: le memorie, le ricorrenze acquistano inevitabilmente il colore smarrito dell’attualità. Così nella deriva del contingente si fa esperienza personale il naufragio del Titanic; nel franare dei ghiacciai riaffiorano detriti dal fondo più sconosciuto del sé e trova occasione di meditare, l’artigiano della parola, sull’uso della “lingua”, stirata, distorta nel tentativo di adattarla a definire una situazione del tutto inedita, a divulgare scomode verità senza provocare allarmi, entrando “nella fine/ con l’illusione storpia del controllo”. Ma diffonde un chiaro di speranza dall’ultimo testo della sezione, suggerito proprio dal riferimento a quello che è considerato il più pessimista dei poeti: Leopardi, con i bagliori della Ginestra, “suo fiore d’inverno”, sbaraglia di vivido giallo le torbide atmosfere dell’epidemia. Del resto, echi leopardiani sono diffusi in questa raccolta, a partire dai ritmici rintocchi sul ferro che apre il legno, che tanto ricordano l’”odi il martel picchiare, odi la sega” del Sabato del villaggio. Sono, oggi quasi come allora, le voci dei borghi che resistono abbarbicati, “Sta un Monastero/ ai salmi della luce”, appena lambiti dal flusso delle auto che si arrampicano per i tornanti, verso le rare località consacrate al turismo.

La quinta sezione del volume è un omaggio ad Amelia Rosselli nel venticinquesimo anniversario della scomparsa. Una sola poesia, un reiterato scandire la distanza che separa da quel giorno, quasi a rendere più prezioso il suo “fiore” che viene ancora in dono “dal fondo del più fondo dei deserti”.

Nell’ultima sezione il poeta concede un’apertura agli affetti, avvolge di carezzevole luce “l’amante gentile” che custodisce la casa, che distilla “oro dalla polvere” mentre attraversa con “grazia di un’equilibrista” il male che non la intacca. Sono la chiusura ideale di un cerchio, di una fase vitale, gli ultimi brani della raccolta: si è aperto un varco nella cerchia dei monti, il bambino ha conosciuto nuovi orizzonti, ha scelto tra tutti i possibili il suo sentiero. Ma non dimentica le origini, e sa che “dura ancora l’inverno”: anche i passi mossi “dietro i muri domestici”, con il conforto dell’amore e della poesia, sono “passi calcati nella neve, / i segni della nostra resistenza”. Versi di bellezza e maturità, di consapevolezza di una vocazione sbocciata con la meraviglia per i “fiori rari” conosciuti tra i monti da bambino (fiori stentati “sapevano quasi di niente” ma insegnavano l’emozione che preparava la parola) e coltivata, curata fino a germogliare nella poesia.

Ho sentito questo libro come una dichiarazione di appartenenza e di amore per luoghi, paesaggi persone; versi dove l’attualità si intreccia alle semplici storie personali, del passato o del presente, che sono poco o niente da sole, ma tutte insieme compiono il grande affresco della Storia e della memoria. L’autore non guarda dall’alto, o da fuori: unisce agli altri i suoi passi attenti e amorevoli, come un’ape laboriosa cesellando, distillando il miele di una parola misurata e sincera, da tenere in serbo per il suo inverno. E per l’inverno di tutti noi.

Mirella Vercelli

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