Nostalgia e ritorno ne ‘Il canto della Moabita” di Sergio Daniele Donati

il canto della moabitaIl canto della Moabita, di Sergio Daniele Donati (Ensemble 2021), è una silloge nella quale si intrecciano e, diremo quasi, si avviluppano tre temi, realtà o vite che formano l’identità dell’autore, un avvocato milanese di origini ebraiche. Esse sono, appunto, la componente culturale della prima religione monoteista, la grande tradizione del pensiero occidentale (da ricercarsi soprattutto nell’Antica Grecia) e la particolare atmosfera di Milano, città dai mille volti e dalle mille personalità. Orgogliosamente l’autore si dichiara figlio di queste tre radici e le accomuna attraverso liriche peculiari, che non potrebbero essere scritte da nessun altro, poiché sarebbe difficile trovare un autore con un tale intreccio di miti fondanti.

Quasi ad ogni pagina si staglia prepotente l’identità ebraica dell’autore, non solo attraverso la rivisitazione di temi propri di questa religione e di questa cultura, ma anche nella lingua. Sono molte le poesie della silloge col testo ebraico a fronte, prova del fatto che Donati ama esprimersi con queste due voci che felicemente si alternano nell’intimo nucleo della sua personalità.

Altrettanto fondante nella poetica de Il canto della Moabita è il mito per eccellenza, quello greco, con la sua vasta gamma di sensazioni, sfumate in versi che hanno la limpidezza della classicità, a lungo letta, amata, studiata. Un amore che si estende anche agli autori neogreci, da Kavafis a Seferis, che di tale classicità sono gli eredi diretti.

C’è poi sullo sfondo (ma più che sullo sfondo è più corretto dire come una musica di sottofondo), la proteiforme Milano, dove l’autore è nato, vive e lavora.

Ne Il canto della Moabita, queste tre radici hanno in comune, a nostro avviso, il tema del ritorno e della nostalgia. La teshuvah ebraica, che è pentimento e ritorno a se stessi, è una nostalgia non solo del Creatore, al quale ci si rivolge pentiti dal proprio peccato, ma anche e soprattutto delle limpide sorgenti della propria anima:

TESHUVAH (IL RITORNO)

                                scrittura esule/scrittura esile

Se torno
le lettere migrano,
altrove.
Nel cardo restano spine,
non più piume di ricordo
né promesse d’ascolto.
Resto là;
la parola afona,
e il sangue schiavo
del silenzio.

La scrittura dell’esule controvoglia che è l’ebreo nella diaspora alberga volentieri tra i versi di Donati, pronta a un ritorno spirituale, più che materiale.
Non a caso, quindi, di tutte le figure mitiche dell’Ellade lo affascina soprattutto Ulisse, a cui sono dedicate tre liriche della silloge. Donati condivide con questo personaggio – che ha molti punti in comune con l’ebreo errante – l’eterna vicenda di un ritorno difficile ad una patria lontana, sfuggente:

ITACA

I palmi delle mani,
come bucce d’arancia,
parlano la lingua antica
dei flauti di Pan.
Quando afferrano le cime
soffia nelle vele
il vento dell’ignoto
e il sale negli occhi
spreme lacrime, come schegge.
Il canto dei marinai
allora tace,
e il velo che hai prescelto
per il volto più stanco
si tinge d’ocra.
Io non posso volgermi
al tuo ricordo, Itaca,
e il ritorno è impossibile,
lo sai,
per la guardia dell’abisso.

Fin qui la nostalgia presente nella silloge può essere identificata con un reale sentimento di lontananza da una terra alla quale si spera di ritornare, o con una lacerante lontananza da un Paradiso perduto in cui è possibile essere riammessi dopo il necessario periodo di maturazione e di purificazione interiore. Resta aperto l’interrogativo di quale valore dare al fatto che tale sensazione viene abbinata anche a Milano, la città che ha visto nascere il poeta e da cui egli non si è mai allontanato per lungo tempo:

NOSTALGIA MILANESE

Poggio e abbandono
uno sguardo umido
su screziature di sogno.
Poi, lo sai,
è felpato e felino
il passo del domani,
tiranno dal respiro
appena intuito.

Questa apparente contraddizione, a nostro avviso, insinua in chi legge la consapevolezza che ci troviamo davanti a una sentimento che può esistere anche solo nell’intimo del poeta, a prescindere dalle circostanze esterne della sua vita reale. La paradossale nostalgia per quello che ci già ci appartiene, quindi, rimarrà in eterno e non potrà mai risolversi in una soluzione, spirituale o materiale che sia. È questo ambiguo messaggio che fa parlare all’unisono le tre anime di Donati, predisponendole all’incontro col lettore, per fargli da specchio e per entrare in simbiosi con lui.

Paola Deplano

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