Fragile ogni creatura

umana fragilitàC’è un’espressione nella notevole prefazione di Paolo Ruffilli che mi sembra particolarmente pertinente a condensare il senso di Umana Fragilità, il nuovo libro di Raffaella Bettiol, edito dalla Biblioteca dei Leoni: questa umana fragilità si estende ad ogni creatura ed è forse la cifra di ogni vita, di ogni essere, magari anche di quella materia da cui è composto l’universo.

Una pietas, direi sospesa tra la dimensione classica e la tradizione cristiana, che investe la sorte di un piccolo uccello: “Un ultimo tuo respiro ho colto/ in un angolo del porticato/ tra briciole di pane e scarti di città. / Ogni vita così fragile e perduta/ così chiara e inconoscibile/ come lampo a breve si spegne.” È una tra le poesie più emblematiche per comprendere la Weltanschauung della poetessa padovana: questo piccolo uccello diventa simbolo stesso della grande fragilità che coinvolge tutti gli esseri: fragilità che è ancora più struggente, aliena da ogni retorica, in quanto individuata nella più fragile e indifesa delle creature.

Questa pietà investe l’umanità intera, non intesa in senso astratto, ma condensata nelle pagine, che si incontrano sia “nel silenzio del dolore” che nella “pienezza della gioia”.
Certo il dolore accampa ovunque, ma c’è una qualche speranza che tenace perdura: Natale è il giorno di ogni nuova vita che nasce: “quel grumo di sangue e carne/ che già respira in un ventre.”
La speranza di uscire da una dimensione drammatica resta, ma sempre sospesa ad un punto interrogativo, ad un qualche difficile intervento forse trascendente, ma sempre inserito nell’umano: “Quali angeli solleveranno anime/ dalla nuda terra/ dalle spoglie dissipate del tempo?”


La sezione del libro, a mio parere più intensa e riuscita, è Uno sguardo sul giardino.
C’è una rassegna imponente d’alberi cespugli e fiori. Si tratta di un mondo vegetale preciso e concreto, guardato con affetto, disegnato nei particolari. Certo queste creature vegetali possono, nell’accompagnare le vicende umane, assumere valenze simboliche, rispecchiare amori, dolori, momenti felici, rimanendo sempre creature, però che hanno una vita indipendente dall’uomo: “Non chiedermi nulla della vita/ non so risponderti, /ogni domanda s’annulla/ nel fitto di gelsi e palme. //…un verde silenzio di sguardi/ ci avvince/ in pacata voluttà”.
Insomma, sembra che solo il mondo delle piante e delle erbe possa offrire una qualche forma di ristoro. La forza che placa e avvince si rivela perfettamente nella lirica Gocciano gli alberi: “È la vita dentro la vita a rinascere/ più forte d’ogni dolore/ nel solare sguardo del giorno”.

È vero, una piccola pianta perenne può darci la sensazione di un permanere quasi eterno, può essere “la maschera ingannevole del nostro esistere”.
Il fatto è che le piante soprattutto queste grasse sembrano quasi eterne, quasi non appartenere alla nostra sorte: “Il tempo non scalfisce le tue ore/ solo il nostro destino imprigiona”.
Lo sguardo sul tarassaco mi coinvolge, perché non può non darci questa impressione di tenacia, non può non colpirci questa vita che spacca il cemento e sfida ogni stagione, ogni vento e gelo e sole infocato: “Esule su grumi polverosi d’erbe/ ai cigli delle strade/ nell’effimero d’ogni esistenza/ di luce vive e si consuma/ fiero sullo stelo spoglio/ incurante d’ogni presagio”.

Non ci sono solo alberi in questo libro, l’amore ha una parte di rilievo. L’amore percepito con forza senza facili sentimentalismi, amore corretto ma non inclinato da una lieve vena ironica: “Eppure, l’ho indossata ancora/ una sera di nebbia come allora/ e follemente ha ruotato/ dimentica di un’età diversa/ che ogni ora sommessamente/goccia”.

Talora s’affaccia una disillusione che non intacca però la verità dei sentimenti: “La tua assenza, mio caro/ una zanzara che punge il cuore/ relitto crudele di memorie, / ma non mi tormenta l’amore, / è solo questo maledetto orologio/ dal battito gioioso che un giorno/ innamorato mi regalasti.”

Questo sapere sorridere più o meno amaramente spoglia i testi d’ogni retorica, dà un brio, un’eleganza alle vicende raccontate: “Scorrono inesorabile le lancette dell’orologio/incuranti dell’ansia/ non s’accordano al desiderio/ indifferenti segnano il tempo. / Le guardo rassegnata al mio ritardo/ ma sì sono certa non s’opporranno all’amore, / forse soltanto a un pranzo caldo.”

Umana Fragilità non è un libro che si configura in un’unica vicenda, quella della protagonista. C’è tutto un mondo dietro, c’è una Padova talora raccontata nella concretezza dei suoi palazzi, delle sue piazze dei suoi quadri e affreschi. I vecchi, i passanti, soprattutto gli studenti affollano queste pagine, s’affaccia anche la realtà dei pusher e dei kebab.
Ed è una pietas per questa umana fragilità a investire ogni persona incontrata o solo vista.

Nella sezione dedicata alle maschere s’impone la figura di Colombina con la sua incantevole giarrettiera: “Di pizzo sorride al gioco del vento/ la bianca giarrettiera/ incanta ogni sguardo/ forse è una rosa/ forse una margherita”.
Alberi e maschere, natura e teatro sono i momenti più risolti nella loro distanza, nel loro rispecchiamento.

Umberto Piersanti

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