L’autoritratto e il fantasma d’amore di Giancarlo Sissa

Giancarlo Sissa

Giancarlo Sissa è un poeta tra i più interessanti della sua generazione. Nato a Mantova nel 1961, vive a Bologna dove è conosciuto anche come francesista e traduttore (ha tradotto, fra gli altri, Lautréamont, Daumal e Michaux). Ha da poco pubblicato Autoritratto (Poesie 1990-2012) edito dalla casa editrice di Ancona Italic peQuod: una sorta di antologia dove i mutamenti personali e sociali appaiono in un mai sfibrato campionario. Alberto Bertoni, critico e sodale di Sissa, nella postfazione scrive di un maestro dell’immaginazione acustica. “Autobiografia e desiderio si saldano dentro una cornice di ascendenza trobadorica, ove lo scacco e il fantasma d’amore vengono trasferiti a una dimensione rituale e talvolta mitopoietica”. Questa poesia assume su di sé alcuni personaggi un po’ strampalati muovendoli nottetempo (come nella migliore tradizione romagnola ed emiliana del Novecento), bar e osterie, borghi e comportamenti domestici nella Mantova dell’infanzia e adolescenza e nella Bologna di oggi. Non mancano improvvisate visioni paesaggistiche: “Cosa importa / che il vento padano / di polvere e fieno / monotono strappi / un grido, un insulto / ai campi di grano?”. Giancarlo Sissa sfida il presente e lo incastona in un clima di pioggia, nel gelo invernale, nella strada dove “Bologna sgomma via”.

Nella raccolta Il mestiere dell’educatore, uscita nel 2002, la scuola è una palestra d’addestramento anche per l’insegnante: il gioco del pallone, lo sgambetto, la finta, il tiro sono particolari di una tonalità pura. Sissa sa descrivere l’energia percettiva delle persone: “E quel bambino lì / che sta in piedi sul davanzale / al quarto piano della ringhiera / dal balcone – non parla ancora / coglione – povero come suo padre / di famiglia e di nome”. Molto riuscita la sezione Prima della Tac, dove il corpo umano, come fosse smembrato, fa capire che si parla anche con ciò che non ha voce e che la precarietà la si avverte in posti di reclusione, insieme ad altri malati. La morte si fa dicibile spettro, insanabile dubbio, consumata parola: “Ora la mano delicata / che muove l’ombra piano / dove mai potremo / o quel lento punto dove / fra l’amore e la finestra / il tempo non trova luce / tenera foglia quell’attimo / che si sfa senza voglia / – così chiamo la morte”.

Bellissimi i testi dedicati al poeta di Cesenatico Ferruccio Benzoni (“Ma nessun vegliare ci salva, Ferruccio / qui sul mare dove incrociano le ore / nel luminìo della distanza”), o i luoghi spenti dove si beve vino e si gioca a carte, dove “si genera il silenzio”. E quindi i figli degli operai, la tensioni e la disdetta della politica, la libertà e la costrizione degli ideali, l’infelicità e la solitudine dell’amore (“Di me avvolto / in un pallore senza voce / che scrivevo di vendette / che leggevo Giovanni della Croce / la foto di Céline davanti / e la voglia di scopare / di vaffanculo tutti quanti”). I nessi di collegamento tra i brani che provengono da un tempo infine malinconico, dove sembra sempre che possa giungere una fine, si susseguono in un catalogo di figure e in uno spazio attraversato da un orizzonte terreno riempito di persone che si fanno compagnia, unite dall’asse intorno alla complicanza del vivere: “Benché poi la pregassi la porca vita / proteggimi dalla stanchezza dal crudo / fermo immagine della trascorsa freschezza / proteggimi dallo stupido dolore / che ogni volta chiamo amore e dimmi / in quale vuoto cade il tempo che accudisco”. Sissa è un poeta che si rivolge all’altro in uno stato di invocazione, ma lo fa rovesciando l’interrogativo sul bene e sul male, sull’assedio dell’inquietudine che è già pregna del senso della sorte che morde, della “terra nel corpo”. E la poesia nella quale chiama in causa Giovanni Giudici, illumina uno sguardo e un’intuizione, più che un confronto e una confessione: “Colmiamo mai il ritardo dei gesti? / della voglia di baciare? È una foglia / che svola fra le altre quella che calpesto / senza pensare”. Il ricordo e la luce si intensificano come fossero spinti dal vento che proviene da un altro pianeta. La ragione si incarna nella soggettività, in una tenerezza che unisce come in un ultimo e impossibile tempo. Si tratta di un’accentuazione della poesia dell’autenticità che non cerca un compromesso. Una volta Giancarlo Sissa ha dichiarato che la poesia è la possibilità che abbiamo di spezzare le certezze apparenti, le convinzioni malate, di usare le parole per dire cose che altrimenti non si potrebbero dire, di aprirci al mondo in segno di condivisione e di restituzione della vita. La poesia, dunque, è a tutti gli effetti un’assunzione di responsabilità.

Alessandro Moscè

 

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