La linea lirica e melodica di un’antologia poetica

sulla scia dei piovaschi

Sulla scia dei piovaschi. Poeti italiani tra due millenni (Archinto 2016) è un’antologia che nasce come sfida e scommessa in un tempo difficile, confuso, dispersivo, e si pone in controtendenza rispetto alle ultime, più significative, pubblicate da una decina di anni a questa parte. Si pensi a Parola plurale di Andrea Cortellessa, Paolo Zublena, Fabio Zinelli, Raffaella Scarpa, Massimiliano Manganelli, Cecilia Bello Minciacchi, Alessandro Baldacci, Giancarlo Alfano (Sossella 2005) e a Dopo la poesia di Enrico Testa (Einaudi 2005), dove affiora un connettivo culturale e sociale che determina facilmente la riconoscibilità dei poeti inclusi.

I curatori di Sulla scia dei piovaschi, Davide Tartaglia e Edoardo Manuel Salvioni (entrambi marchigiani), hanno privilegiato, nella corposa parte introduttiva, una linea lirica e melodica, la poesia della tradizione, per alcuni definitivamente morta, ma che invece, in un ideale trait d’union tra vecchie e nuove generazioni, risulta essere ancora in salute. Tre generazioni, dunque, nate tra gli anni Quaranta e Sessanta, con una rapida escursione, in alcuni casi, tra i poeti nati negli anni Settanta, per sondare la cristallinità della parola alta, pura, di derivazione luziana a partire dallo stile più che dalle questioni trattate. Nessun intento di tipo parziale, né la volontà di proporre un canone riassuntivo, come fu per Daniele Piccini con La poesia italiana dal 1960 ad oggi (Bur 2005). Sulla scia dei piovaschi stabilisce alcuni punti fermi in un dialogo proficuo con altri lavori critici editi nell’arco di quarantennio: l’impossibilità di accertare un territorio condiviso; l’assenza di un manifesto programmatico di stampo ideologico; il rigetto per una scrittura ricostruita in laboratorio, di tipo sperimentale, avanguardista. Un intento simile è riscontrabile nell’antologia Il segno della parola (Interlinea 2012) di Rossella Frollà, in una poliedrica analisi che attinge a suggestioni e ad evocazioni nel magma incandescente del luogo e della rêverie.

Sono molte le direttive di cui i giovanissimi Tartaglia e Salvioni si occupano, a dimostrazione di come gli stessi poeti oltre i quarant’anni rappresentino un mondo, specie editorialmente, sommerso, dimenticato, ma allacciato ad un registro dialogico e comunicativo. Non poteva non risultare una punta di polemica nei confronti di chi ha virato in direzione diametralmente opposta negli anni Sessanta: “Il reale, in una parte consistente del Gruppo 63, viene rifiutato in toto per la sua impossibilità di appropriazione, in virtù di una palingenesi tanto stilistica quanto politico-sociale”. Vengono riprese le poetiche dominanti di Sereni, Caproni, Luzi, gli esiti tonali e narrativi, il dramma esistenziale, la tensione metafisica e le diramazioni della lirica dagli anni Sessanta fino ad oggi. Il fluire della vita, il suo movimento e le sue contraddizioni sono il punto nodale, il presupposto determinato dal quale parte questa antologia, che registra il passaggio definitivo da un io confessionale ad un tu partecipativo. Nel sussulto di umanità si fa strada il mistero dell’essere che conduce allo slancio di un’altra antologia storica, quasi ne fosse la degna prosecuzione: La parola innamorata (Feltrinelli 1978) di Enzo Di Mauro e Giancarlo Pontiggia, tutt’altro che formulata in virtù di un progetto organico e strutturato, ma che fu molto utile per riprendere il filo, spezzato, di una poesia intesa essenzialmente come strumento di relazione, di passione.

Nella parte generale Tartaglia e Salvioni citano e commentano alcuni poeti tra i maggiori del secondo Novecento e di questo terzo millennio: Franco Loi, Giuseppe Conte, Cesare Viviani, Umberto Piersanti, Dario Bellezza, Ferruccio Benzoni, Remo Pagnanelli, Patrizia Cavalli, Giancarlo Pontiggia, Valerio Magrelli, Giovanna Sicari, mettendo in luce la riflessione fenomenologica ed esistenziale, l’espressività e la descrittività, i grandi temi vita/morte, le domande di senso argomentate, il bisogno di raccontare la ferialità così come il mistero inafferrabile dell’assoluto. Proprio Bellezza è il poeta la cui immagine funge da cerniera con la sua vicenda umana e letteraria “che rappresenta una delle reazioni più decise alle avanguardie degli anni Sessanta”. Annotano i curatori: “E’ evidente che in Bellezza l’io lirico torna prepotentemente sulla scena ed assume un ruolo centrale nel testo, ma le tensioni orfiche sono mitigate da una compostezza classica”. Un poeta di riferimento è lo stesso Remo Pagnanelli nella sua tragicità personale e nella domanda sanguinosa ed estenuante, greve, in uno “stupore quasi ancestrale”. Vengono rimarcati i versi di Giovanna Sicari, una ferita spalancata nell’incontro tra corpo, fede e sensi. Il tentativo di Tartaglia e Salvioni è dunque di indagare una pluralità dipanata tra più influenze, rimettendo al centro il Grande Stile e appunto la tradizione novecentesca, così vilipesa e combattuta. Nella parte speciale il mito della terra, l’eros e gli affetti familiari sono al centro della disamina su Umberto Piersanti, attraverso quella “ostinata memoria” che si ricongiunge al tempo e ai luoghi mitografici, ad un naturalismo e ad un’antropologica amplificazione, mentre di Maurizio Cucchi viene colta la bussola all’interno dei lacerti di vissuto, nei sottendimenti, nelle trascrizioni minimali.

La concentrazione del suono e del significato è il tratto distintivo della poetica di Eugenio De Signoribus, così come la pianezza descrittiva e una certa ascensione sono il centro motore del discorso di Cesare Viviani. Immaginazione e gusto dell’insolito fondano la scrittura di Franco Buffoni nelle sequenze sintattiche e timbriche; la lievità, l’impronta del ragionamento e la resistenza dei sensi i tratti peculiari di Patrizia Cavalli. La luce che illumina persone e oggetti davanti agli occhi è la misura di Umberto Fiori; la malinconia e i luoghi interni delineano i versi di Stefano Simoncelli. Di Milo De Angelis, Tartaglia e Salvioni catalizzano specie l’opera prima, Somiglianze (1976), “una reazione cristallina e audace alla neoavanguardia”. La parola, in seguito, acquisirà la propensione al guardare, a fissare il destino di personaggi e figure in una combattiva coralità. Francesco Scarabicchi persegue la trama della perdita nelle secche del presente e nell’impossibilità dell’altrove; Giancarlo Pontiggia preserva un tono classico tra le ere del passato e le dimore visitate nella mente; Gianni D’Elia coniuga la poesia della giovinezza al tempo della storia, sospendendo i versi tra il personale e il politico; Alberto Bertoni scrive nei “nervi delle cose” e nella ricerca di un ricordo vitale; Valerio Magrelli segue un tragitto misurato, oggettuale, per trarre una fenomenologia del visivo e del visibile; Fabio Pusterla privilegia la nudità dell’espressione in un procedere compatto e in un canto di elevatezza umana. Giancarlo Sissa si apre ad una visuale prospettica tra cose e persone marginali, viste con la coda dell’occhio; Gianfranco Lauretano fotografa materia e luce, inquietudine e pudore; Antonio Riccardi stratifica il romanzo familiare e l’attenzione alle varie fasi dell’esistenza; Davide Rondoni trova la cifra stilistica in una lingua che si accende tra il particolare della quotidianità e la percezione ricomposta nella totalità di Dio; Filippo Davoli opta per una poesia che guarda in alto alludendo alla finitezza dell’uomo. Nicola Bultrini costruisce un ponte tra il mondo osservabile e i fatti che sovrastano l’individuo; Alessandro Moscè, in una versione diaristica, descrive i luoghi e li innerva di personaggi vivi e morti; Massimo Gezzi traspone la sequela di scorci al dolore per la transitorietà dei viventi. Sono presenti negli approfondimenti dell’antologia, oltre agli autori già menzionati, Vivian Lamarque, Daniela Attanasio, Guido Garufi, Silvia Bre, Antonella Anedda, Feliciano Paoli, Alessandro Fo, Mario Benedetti, Alessandro Ceni, Claudio Damiani, Gianmario Villalta, Alba Donati, Stefano Dal Bianco, Maria Grazia Calandrone, Massimo Morasso, Stefano Raimondi, Luigi Socci, Daniele Piccini e Gabriel Del Sarto.

Davide Tartaglia e Edoardo Manuel Salvioni hanno letto la fine del Novecento e l’inizio del terzo millennio in una sorta di attraversamento: “un passaggio millenario che anche i poeti hanno avvertito come fase di radicale spostamento. Si è spesso ricorso a quello che si potrebbe definire un paradigma della posterità”. A tal proposito non sono stati dimenticati Franco Cordelli e Alfonso Berardinelli, che riconfigurarono “le radici del sentire, dell’agire, della realizzazione poetica” nel 1975 con la celebre antologia Il pubblico della poesia (Lerici), che sanciva la necessità di una diretta comunicazione e che ebbe il pregio di interrogarsi sul futuro della società, nonché sulla tendenza della scrittura poetica a diventare, purtroppo, un’occorrenza autoreferenziale. L’impressione è che Sulla scia dei piovaschi sia un’antologia che si imporrà e che farà discutere a lungo. La mappa di ricognizione si può leggere nei caratteri distintivi della linea lirica che perdura nel corso dei decenni. I poeti più giovani prendono fiato in un orizzonte infallibile proprio perché intensamente ordinato ad un effetto poetico, ad un sentimento primordiale che tiene conto della lezione dei predecessori: Saba, Sereni, Caproni, Montale, Pasolini, Gatto, Penna, Betocchi, Bertolucci, Luzi, Raboni, i dialettali Pierro, Baldini, Guerra, Scataglini, per arrivare ai nati negli anni Quaranta e Cinquanta. Il miracolo della parola in moto, fortunatamente, è di attendere ancora che possa trasformarsi nella sostanza di uno svelamento e di un riconoscimento esistenziale tra sé e gli altri.

Elisabetta Monti

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1 commento a “La linea lirica e melodica di un’antologia poetica

  1. Spero di sbagliare ma credo che manchi
    Un grande poeta come Antonio Santori.
    Ha raggiunto vette che pochi sono
    riusciti a toccare. Com’è possibile non
    parlare di lui?

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